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Sentenza della Corte Costituzionale 6 del 18 gennaio 1999
ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Dott. Renato GRANATA Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI Giudice
- Prof. Francesco GUIZZI "
- Prof. Cesare MIRABELLI "
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO "
- Avv. Massimo VARI "
- Dott. Cesare RUPERTO "
- Dott. Riccardo CHIEPPA "
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY "
- Prof. Valerio ONIDA "
- Prof. Carlo MEZZANOTTE "
- Avv. Fernanda CONTRI "
- Prof. Guido NEPPI MODONA "
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Prof. Annibale MARINI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, commi 4 e 9, 6, comma 1, e 7, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), promosso con ordinanza emessa il 3 febbraio 1996 dal Pretore di Lecce nel procedimento civile vertente tra Cotardo Tiziana ed altre e la ditta LUEL ed altre, iscritta al n. 1203 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 14 ottobre 1998 il Giudice relatore Cesare Ruperto.
Ritenuto in fatto
1.1.- Il Pretore di Lecce - nel corso di un giudizio in cui i lavoratori licenziati per cessazione di attività aziendale avevano richiesto che venisse accertato il loro diritto ad essere collocati in mobilità - sollevò, con ordinanza del 18 maggio 1994, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che l'indennità in argomento possa spettare anche a soggetti non iscritti nelle liste di mobilità che posseggano i relativi requisiti.
Con sentenza n. 413 del 1995, questa Corte dichiarò non fondata la questione, osservando che il diritto all'indennità costituisce una tra le molteplici conseguenze dell'iscrizione nelle liste, e aggiungendo che non poteva esaminare, "in quanto eccedente rispetto al "thema decidendum" devoluto alla Corte stessa, "la conformità, o meno, a Costituzione della disciplina (non già del presupposto dell'indennità di mobilità ma) della stessa iscrizione nelle liste suddette (art. 4)".
1.2.- Lo stesso giudice, con ordinanza emessa il 3 febbraio 1996 nel corso del medesimo processo - dopo aver ricordato che il datore di lavoro ha verbalmente proceduto al licenziamento di tutti i dipendenti per cessazione di attività - ha sollevato, in relazione agli artt. 3 e 38 Cost., questione di legittimità costituzionale, dell'art. 4, commi 4 e 9, in combinato disposto con gli artt. 6, comma 1, e 7, comma 1, della già citata legge n. 223 del 1991, nella parte in cui riserva soltanto al datore di lavoro e non anche, in alternativa, ai lavoratori licenziati per cessazione di attività "l'iniziativa o il compimento degli atti indispensabili" per l'iscrizione nelle liste di mobilità da compilarsi a cura dell'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione.
Osserva il rimettente come, in caso di cessazione dell'attività aziendale, la procedura di mobilità trovi applicazione soltanto per la parte compatibile, in particolare quella che tende ad assicurare ai lavoratori la tutela previdenziale e sociale. In tale ipotesi i motivi della decisione imprenditoriale di cessare l'attività risultano insindacabili da parte del giudice, né sarebbe possibile l'effettiva reintegrazione del lavoratore ove fosse accertata l'invalidità o l'inefficacia del recesso. L'inesistenza o il mancato perfezionamento degli adempimenti, sia pure soltanto formali, cui il datore di lavoro è tenuto nella procedura in questione, determina la mancata iscrizione dei lavoratori nelle liste e, quindi, l'impossibilità di acquisire quello status che è condizione, tra l'altro, della percezione dell'indennità, anche se gli stessi siano in possesso dei requisiti di anzianità aziendale previsti dall'art. 16, comma 1, della legge.
D'altra parte - aggiunge il rimettente - non sarebbe possibile alcuna indagine circa la legittimità del comportamento del soggetto pubblico, al fine di richiedere al giudice ordinario l'accertamento incidentale dell'illegittimità della mancata iscrizione, atteso che quest'ultima è stata rifiutata per il difetto del presupposto, cioè per le mancate comunicazioni facenti carico al soggetto privato.
Ma - sempre secondo il rimettente - non sembra ragionevole condizionare l'iscrizione, produttiva di effetti previdenziali e sociali, alla sola iniziativa del datore di lavoro, estraneo ai rapporti che dall'iscrizione stessa conseguono e, in ipotesi, indifferente ai riflessi economici negativi della propria condotta. E ciò anche alla stregua dei princìpi generali, secondo cui un diritto non può essere condizionato dal comportamento di altro soggetto, che non sia giustificato da seri e apprezzabili motivi ma sia invece solo conseguente a una scelta arbitraria.
La prospettazione, secondo quanto precisa il Pretore di Lecce, non riguarda più dunque la mancata corresponsione dell'indennità di mobilità ai non iscritti alle liste che pure ne avrebbero avuto diritto, bensì ("prendendo atto dei rilievi mossi dalla Corte costituzionale") l'irragionevolezza e il contrasto con il principio di eguaglianza, correlato con l'art. 38 Cost., espresso dall'impossibilità di essere iscritti nelle liste di mobilità per lavoratori, i quali pur posseggono i relativi requisiti.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità per irrilevanza, in quanto le parti ricorrenti nel giudizio a quo si sarebbero limitate a richiedere la condanna al pagamento dell'indennità di mobilità. Nel merito, l'Autorità intervenuta rileva come dal tenore dell'impugnato art. 4 non sia ricavabile alcuno dei vizi di legittimità costituzionale prospettati dal rimettente.
Considerato in diritto
1.- Il Pretore di Lecce dubita della legittimità costituzionale dell'art. 4, commi 4 e 9, in combinato disposto con gli artt. 6, comma 1, e 7, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223. A parere del rimettente, la denunciata normativa - che descrive gli adempimenti imposti al datore di lavoro per l'iscrizione dei dipendenti nelle liste di mobilità, subordinando ad essa l'erogazione della relativa indennità - contrasta con gli artt. 3 e 38 Cost., nella parte in cui condiziona la procedura d'iscrizione esclusivamente al comportamento del datore di lavoro senza prevedere, in alternativa, che "l'iniziativa o il compimento" degli atti necessari - nell'inerzia del soggetto tenuto ad attivarsi - spetti ai lavoratori interessati, in caso di licenziamento collettivo per cessazione dell'attività.
Secondo il rimettente, è irragionevole subordinare l'iscrizione (e la prestazione conseguente) al comportamento (in ipotesi arbitrario) di un terzo estraneo al rapporto previdenziale e sostanzialmente indifferente agli effetti negativi dell'omessa iscrizione. Effetti, che verrebbero a prodursi a carico dei lavoratori in conseguenza della condotta omissiva del loro datore di lavoro, con disparità di trattamento rispetto ai casi in cui quest'ultimo abbia invece provveduto al compimento di una serie di atti formali, e con violazione anche del diritto protetto dall'art. 38 Cost.
2.- La questione non è fondata, nei sensi di cui appresso.
2.1.- Giova rammentare che nel corso del medesimo giudizio a quo il Pretore di Lecce ebbe già a sollevare questione di legittimità costituzionale - parimenti in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost. - dell'art. 7, comma 1, della stessa legge n. 223 del 1991, con riguardo alla mancata corresponsione dell'indennità di mobilità ai lavoratori, che pure ne avrebbero avuto diritto, non iscritti nelle liste a causa della condotta omissiva del datore di lavoro.
Con sentenza n. 413 del 1995 questa Corte dichiarò non fondata tale questione, osservando come il diritto alla percezione dell'indennità non rappresenti che una tra le molteplici conseguenze di quello status che i lavoratori acquisiscono con l'iscrizione nelle liste di mobilità. In tale momento si radica, difatti, "un complesso di rapporti interconnessi, dei quali quello avente ad oggetto l'erogazione dell'indennità di mobilità costituisce il principale ma non l'unico", che non è quindi possibile enucleare prescindendo dall'iscrizione nelle liste stesse.
L'odierna prospettazione concerne appunto quest'ultimo aspetto, nella centralità così posta in luce da quella sentenza rispetto al complessivo impianto della denunciata legge. Le affermazioni allora fatte vanno dunque assunte a premessa del presente scrutinio di costituzionalità, particolarmente là dove si rileva l'inadeguatezza della tutela risarcitoria, segnatamente nel caso di cessazione dell'attività aziendale, e si sottolinea la dimensione procedimentale in cui si colloca l'iscrizione nelle liste.
2.2.- Tanto precisato, osserva la Corte che, per effetto del rinvio operato dall'art. 24, comma 2, della legge n. 223 del 1991, le norme in materia di mobilità si applicano anche in caso di licenziamento collettivo per cessazione di attività, avuto riguardo al solo requisito dimensionale delle imprese (prescindendo, dunque, dall'avvenuta ammissione delle stesse al trattamento straordinario d'integrazione salariale). Come risulta evidente dal testo normativo, l'estensione alle imprese che "intendono cessare l'attività" è frutto di un'assimilazione logica alle ipotesi di licenziamento collettivo per "riduzione o trasformazione di attività o di lavoro", contemplate nel precedente comma. Anche la cessazione dell'attività, in altri termini, si vuole inserita in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilità tende a ridurre le conseguenze della crisi o della ristrutturazione dell'impresa sull'occupazione.
Cotale forma di tutela si comprende e si giustifica in quanto la messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori. Ma essa assurge ad espressione di un principio generale, che non può non valere anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell'impresa operata al di fuori d'ogni procedura: come appunto messo in risalto dalla succitata sentenza, la sola sanzione dell'inefficacia del recesso ex art. 5, comma 3 (con la tutela giurisdizionale che ne consegue), non può considerarsi appagante ai fini della tutela dei lavoratori.
2.3.- Per altro verso è evidente che la comunicazione di avvio della procedura, così come regolata dai commi 1 e 2 dell'art. 4, e la trasmissione degli elenchi di cui al comma 9 - sanzionata, quest'ultima, con l'inefficacia se eseguita senza l'osservanza dei modi e termini stabiliti - costituiscono atti non surrogabili dall'intervento dei lavoratori. La presenza di questi ultimi nella complessa procedura - quale risulta dalle indicate norme, coinvolgente una pluralità di soggetti, privati e pubblici - non può che esprimersi attraverso le organizzazioni sindacali, portatrici della dimensione collettiva degl'interessi in gioco e di una visione d'insieme del mercato del lavoro (cfr.: sentenza n. 268 del 1994).
Tuttavia va osservato che il legislatore, successivamente alla legge n. 223 del 1991, ha previsto un'ipotesi d'iscrizione nelle liste, originata esclusivamente dall'iniziativa del lavoratore interessato. Infatti l'art. 4, comma 1, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, in legge 19 luglio 1993, n. 236, consente ai lavoratori dipendenti da aziende che non rientrino nella disciplina della mobilità, licenziati "per giustificato motivo oggettivo connesso a riduzione, trasformazione o cessazione di attività o di lavoro", di richiedere l'iscrizione alla sezione circoscrizionale per l'impiego entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento.
La norma, in quanto dettata anche per i licenziamenti individuali, conferisce a tale sezione il potere di verificare la corrispondenza dei motivi del recesso a quelli dichiarati dal datore di lavoro, e proprio in relazione al difetto dei requisiti di legittimità del licenziamento esclude il diritto all'indennità di mobilità. Ma essa - siccome espressiva, per le considerazioni sopra svolte, di un ampliamento della tutela dei lavoratori - va letta nel senso, costituzionalmente adeguato, di consentire a quanti siano rimasti privi del posto di lavoro in conseguenza del mero comportamento datoriale che ha posto fine all'attività, di inoltrare la richiesta d'iscrizione nelle liste; restando poi a carico dell'ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione l'ulteriore controllo circa l'esistenza degli eventuali presupposti oggettivi e soggettivi necessari per la corresponsione dell'indennità. Il denunciato art.6 della legge n. 223 del 1991 demanda infatti a tale ufficio l'attività di raccolta delle informazioni concernenti la specifica professionalità dei lavoratori, a séguito di un'analisi tecnica compiuta dall'agenzia per l'impiego, al fine di un corretto inserimento nella lista, tale da consentire un'appropriata ricollocazione nel mercato del lavoro.
Poiché la natura collettiva del licenziamento è insita nel fatto stesso della cessazione totale e definitiva dell'attività aziendale, appare del tutto logico che l'ufficio regionale - non dovendo verificare il carattere del licenziamento - debba estendere la sua istruttoria al riscontro dei presupposti oggettivi e dei requisiti soggettivi che dànno titolo alla percezione dell'indennità allorché, come nel caso di cui al giudizio a quo, sia mancata la disponibilità di questi dati quale esito della procedura tipica, attivata e condotta dall'imprenditore (il quale, oltretutto, non ha neppure formalizzato i licenziamenti).
2.4.- L'estensione - imposta dalla logica, prima ancora che costituzionalmente necessaria - della possibilità offerta dall'art. 4 del decreto-legge n. 148 del 1993 a tutte le ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività, consente così di acquisire a posteriori gli elementi su cui si fonda il diritto all'indennità, stante che, nel caso di accertamento positivo, la commissione per l'impiego, in ragione del carattere tecnico e quindi vincolato del controllo che le è demandato - come esattamente sottolinea il giudice a quo, e come risulta confermato dalla stessa prassi amministrativa - è tenuta all'approvazione della lista.
D'altra parte, codesto meccanismo, introdotto come misura temporanea, è stato prorogato prima dall'art. 4, comma 17, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, in legge 28 novembre 1996, n. 608; poi fino al 31 dicembre 1998 dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 20 gennaio 1998, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 20 marzo 1998, n. 52; e da ultimo "fino alla riforma degli ammortizzatori sociali", con la modifica apportata a tale norma dall'art. 81, comma 2, lettera b), della legge 23 dicembre 1998,n. 448. Col venir meno del suo carattere transitorio, il meccanismo è dunque da considerarsi ormai un consolidato complemento delle disposizioni di cui agli artt. 4, 6 e 7 della legge n. 223 del 1991, là dove assicura ai lavoratori una via di accesso diretto alle liste e, pur nella imperfezione del generale ordito normativo, rende possibile il conseguimento dello status derivante dall'iscrizione, con le connesse agevolazioni del collocamento nonché, se ne sussistano i requisiti, della percezione di un'indennità.
2.5.- Accogliendo, fra le possibili interpretazioni del sistema normativo in esame, quella adeguatrice alla Costituzione sopra delineata, vengono meno i dubbi di costituzionalità prospettati dal Pretore di Lecce senza prendere in considerazione la succitata norma della legge n. 236 del 1993, che del sistema stesso fa parte integrante.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, commi 4 e 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), in combinato disposto con gli artt. 6, comma 1, e 7, comma 1, della legge stessa, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dal Pretore di Lecce, con l'ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 gennaio 1999.
Presidente Renato GRANATA
Redattore Cesare RUPERTO
Depositata in cancelleria il 21 gennaio 1999