-
Iscritti alla gestione dipendenti pubblici
-
Lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione - Lettera B
-
Lavoratori cessati entro il 30/09/2012 e in mobilita ordinaria o in deroga a seguito di accordi governativi o non governativi, stipulati entro il 31 dicembre 2011 - Lettera A
-
Lavoratori contemporaneamente prosecutori volontari e cessati per accordi individuali o collettivi
-
Lavoratori il cui rapporto di lavoro si sia risolto per accordi individuali o per accordi collettivi di incentivo all'esodo - Lettera C
-
Lavoratori prosecutori volontari in mobilità ordinaria che attendono il termine della stessa per effettuare il versamento volontario - Lettera D
-
Soggetti non scrutinati nella prima e seconda salvaguardia (65.000, 55.000)
-
Terza Salvaguardia - 10.130
-
Tipologie dei lavoratori e criteri di salvaguardia
Sentenza della Corte Costituzionale 158 del 18 aprile 2007
"Giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53)"
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Franco BILE (Presidente), Giovanni Maria FLICK, Francesco, AMIRANTE, Ugo DE SIERVO Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso, QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, GaetanoSILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO
ha pronunciato la seguente SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promosso con ordinanza del 10 luglio 2006 dal Tribunale di Cuneo sul ricorso proposto da I.C. contro il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, iscritta al n. 544 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2006. Udito nella camera di consiglio del 21 marzo 2007 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto in fatto 1.- Il Tribunale di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 10 luglio 2006, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 32 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), "nella parte in cui non prevede il diritto del coniuge di soggetto con handicap in situazione di gravità a fruire del congedo ivi indicato".
1.1.- Il giudice rimettente premette, in punto di fatto, che oggetto del giudizio a quo è una controversia di lavoro promossa da un dipendente di un istituto di istruzione superiore, con contratto a tempo determinato, nei confronti del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, per ottenere il riconoscimento del diritto al congedo straordinario retribuito previsto dall'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, motivato dalla necessità di assistere la moglie in situazione di disabilità grave ai sensi dell'art. 3, commi 1 e 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate). Riferisce, in particolare, il rimettente che la domanda di congedo in questione è stata respinta dall'amministrazione dell'istituto ove il ricorrente presta servizio, sulla considerazione che il citato art. 42, comma 5, non include il coniuge del disabile nel novero degli aventi diritto a tale tipo di beneficio. E ciò, nonostante che, nel caso di specie, il ricorrente risulti essere l'unico soggetto in grado di assistere la moglie posto che del nucleo familiare fanno parte due figlie minori e che la famiglia di origine della donna non risulta in grado di prestarle alcun tipo di assistenza, essendo il padre deceduto, la madre invalida al 74 per cento, e l'unica sorella non convivente impegnata ad attendere alle incombenze della propria famiglia.
2.- In punto di diritto, il giudice a quo osserva che la ratio legis del congedo straordinario retribuito e coperto da contribuzione figurativa non risiederebbe nella sola tutela della maternità e della paternità perseguita dal d.lgs. n. 151 del 2001 - ove è contemplata, oggi, la relativa disposizione (art. 42, comma 5) -, ma si inscriverebbe nel più ampio disegno di tutela della salute psico-fisica del disabile prefigurato dalla legge 8 marzo del 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città), ove detta previsione era, in origine, collocata (art. 4, comma 4-bis), accanto a quella relativa al congedo non retribuito (art. 4, comma 2), quest'ultimo spettante anche al coniuge del disabile. Tale previsione si collocherebbe, anzi, secondo il rimettente, nel contesto della normativa a tutela dei disabili e, più specificatamente, della legge n. 104 del 1992, la quale avrebbe "come finalità la garanzia del pieno rispetto della dignità umana e dei diritti di libertà e autonomia della persona handicappata, la promozione della piena integrazione del disabile nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società", predisponendo in suo favore servizi e prestazioni diretti alla prevenzione, alla cura e alla riabilitazione delle minorazioni, nonché alla sua tutela giuridica ed economica.
2.1.- A sostegno della correttezza dell'inquadramento giuridico dell'istituto suddetto, il giudice a quo richiama quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 233 del 2005, con la quale l'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, è stato definito norma diretta "a favorire l'assistenza al soggetto con handicap grave mediante la previsione del diritto ad un congedo straordinario - rimunerato in misura corrispondente all'ultima retribuzione e coperto da contribuzione figurativa - che, all'evidente fine di assicurare continuità nelle cure e nell'assistenza ed evitare vuoti pregiudizievoli alla salute psico-fisica del soggetto diversamente abile, è riconosciuto non solo in capo alla lavoratrice madre o in alternativa al lavoratore padre ma anche, dopo la scomparsa, a favore di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi". Sotto altro profilo, sottolinea ancora il rimettente, la medesima pronuncia avrebbe evidenziato che i fattori di recupero e di superamento dell'emarginazione dei "soggetti deboli" sarebbero rappresentati non solo dalle pratiche di cura e di riabilitazione, ma anche dal pieno ed effettivo loro inserimento nella famiglia, considerato il fondamentale ruolo da questa svolto nella cura e nell'assistenza dei disabili, rispetto al quale l'istituto del congedo straordinario retribuito si porrebbe quale specifico intervento economico integrativo di sostegno.
2.2.- Alla luce di tali considerazioni, ad avviso del rimettente, risulterebbe costituzionalmente illegittima l'esclusione del coniuge del disabile in situazione di gravità dal novero dei soggetti beneficiari del congedo in questione (genitori, o, in caso di loro scomparsa o totale inabilità, fratelli o sorelle conviventi del disabile), per contrasto con gli artt. 2, 3, 29 e 32 della Costituzione.
2.3.- In primo luogo, con specifico riferimento alla dedotta lesione dell'art. 29 Cost., il giudice rimettente osserva che il mancato riconoscimento del diritto al congedo straordinario retribuito al coniuge del disabile in condizione di gravità determinerebbe un'ingiustificata minore tutela del nucleo familiare proprio nei casi in cui sarebbe più forte l'esigenza di garantire che il lavoratore conservasse la medesima retribuzione nel periodo destinato all'assistenza del consorte. É, infatti, verosimile che in tali casi - come nella fattispecie oggetto del giudizio a quo - il coniuge abile sia l'unico in grado di garantire il mantenimento economico, oltre che del consorte che necessita di assistenza continuativa, anche degli altri membri della famiglia.
2.4.- In secondo luogo, l'attuale disciplina riserverebbe irragionevolmente un trattamento deteriore al coniuge del disabile che versi in situazione di gravità rispetto a quello assicurato al genitore, o, in caso di sua impossibilità, ai fratelli e alle sorelle del disabile, in relazione alla possibilità di adempiere ai doveri di assistenza e di cura del proprio consorte (di cui all'art. 2 della Costituzione), in quanto detto coniuge sarebbe posto di fronte all'alternativa fra prestare assistenza a quest'ultimo, fruendo del congedo senza alcuna retribuzione - previsto dall'art. 4, comma 2, della legge n. 53 del 2000 -, ovvero continuare a lavorare per assicurare allo stesso, nei limiti delle proprie capacità, i mezzi economici di sostentamento e le cure adeguate, mentre gli sarebbe negata ogni possibilità di intervento ai fini dell'assistenza morale.
2.5.- In terzo luogo, l'esclusione del coniuge del disabile dalla fruizione del congedo straordinario retribuito determinerebbe anche una tutela del disabile nell'esercizio del diritto alla cura e alla salute minore rispetto a quella assicurata al disabile assistito dai genitori o, in loro mancanza, dai fratelli conviventi. 3.- In punto di rilevanza, il rimettente afferma che nel giudizio a quo il rifiuto dell'amministrazione dell'istituto scolastico di riconoscere il congedo straordinario retribuito al ricorrente si fonda unicamente sulla "attuale portata della norma" e sulla "limitata sfera applicativa della stessa", cosicché l'eventuale accoglimento della questione sollevata "consentirebbe al ricorrente di beneficiare del congedo da lui richiesto".
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), "nella parte in cui non prevede il diritto del coniuge di soggetto con handicap in situazione di gravità a fruire del congedo ivi indicato", per contrasto con gli artt. 2, 3, 29 e 32 della Costituzione. Ad avviso del giudice rimettente, infatti, la norma censurata, riconoscendo il diritto al congedo straordinario retribuito esclusivamente ai genitori della persona in situazione di disabilità grave o, in alternativa, in caso di loro scomparsa o impossibilità - dopo la sentenza n. 233 del 2005 di questa Corte - ai fratelli e alle sorelle con essa conviventi, determinerebbe un ingiustificato trattamento deteriore di un soggetto, il coniuge, tenuto ai medesimi obblighi di assistenza morale e materiale nei confronti del consorte disabile. La disposizione denunciata, al contempo, riserverebbe irragionevolmente una minor tutela sia al nucleo familiare del disabile, rispetto a quella riservata alla sua famiglia di origine, sia al diritto alla salute dello stesso, la cui realizzazione è assicurata anche attraverso il sostegno economico della famiglia che lo assiste.
2.- La questione è fondata.
2.1.- Ai fini del corretto inquadramento del dubbio di legittimità sollevato, occorre, preliminarmente, evidenziare la ratio legis dell'istituto del congedo straordinario retribuito, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato.
2.2.- L'istituto in esame era stato originariamente contemplato dall'art. 4, comma 4-bis, della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città), finalizzato alla disciplina dei "congedi per eventi e cause particolari". Lo stesso istituto è stato successivamente regolato dall'art. 80, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, contenente "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)", che ne ha ampliato i contenuti, accrescendo significativamente il numero e la qualità delle forme di tutela esistenti. In effetti, sulla base del combinato disposto delle due norme sopra citate, si è attribuita la possibilità di fruire di un congedo di durata analoga a quello previsto per gravi motivi familiari - assistito dal diritto di percepire un'indennità corrispondente all'ultima retribuzione, nonché coperto da contribuzione figurativa - ai lavoratori dipendenti pubblici e privati, i cui figli si trovassero in situazione di disabilità grave da almeno cinque anni; disabilità accertata con le forme previste dagli artt. 3 e 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate). Detto beneficio spettava, alle medesime condizioni ed in via alternativa, anche ai fratelli o alle sorelle conviventi con il disabile in caso di "scomparsa" dei genitori. Sin dal momento della sua introduzione, dunque, l'istituto in questione mirava a garantire l'assistenza della persona con handicap grave già in atto, pur limitando l'ambito di operatività del beneficio ai componenti (genitori e, in caso di loro scomparsa, fratelli o sorelle) della sola famiglia di origine del disabile. A seguito dell'emanazione del d.lgs. n. 151 del 2001, l'istituto del congedo straordinario fu collocato al comma 5 dell'art. 42 con la rubrica "Riposi e permessi per i figli con handicap grave" e, con modifica operata dall'art. 3, comma 106, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004)", riconosciuto a prescindere dal presupposto della permanenza da almeno cinque anni della situazione di disabilità grave.
2.3.- Questa Corte ha già operato un primo vaglio dell'istituto del congedo straordinario, come delineato a seguito delle richiamate vicende normative, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non prevedeva "il diritto di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con soggetto con handicap in situazione di gravità a fruire del congedo ivi indicato, nell'ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all'assistenza del figlio handicappato perché totalmente inabili" (sentenza n. 233 del 2005). In tale occasione, si è sottolineato che il congedo straordinario retribuito si iscrive negli interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie che si fanno carico dell'assistenza della persona diversamente abile, evidenziando il rapporto di stretta e diretta correlazione di detto istituto con le finalità perseguite dalla legge n. 104 del 1992, ed in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica della persona handicappata e di promozione della sua integrazione nella famiglia. Risulta, pertanto, evidente che l'interesse primario cui è preposta la norma in questione - ancorché sistematicamente collocata nell'ambito di un corpo normativo in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità - è quello di assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio dell'assistito.
2.4.- Sotto altro profilo, questa Corte ha più volte evidenziato la centralità del ruolo della famiglia nella assistenza del disabile e, in particolare, nel soddisfacimento dell'esigenza di socializzazione quale fondamentale fattore di sviluppo della personalità e idoneo strumento di tutela della salute del disabile intesa nella sua accezione più ampia (si veda, fra le altre, la sentenza n. 350 del 2003).
2.5.- Alla luce delle premesse sopra svolte, la norma censurata concernente il trattamento riservato al lavoratore, coniugato con un disabile in situazione di gravità e con questo convivente, omette di considerare, in violazione degli artt. 2, 3, 29 e 32 della Costituzione, le situazioni di compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tali da "rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione" - secondo quanto previsto dall'art. 3 della legge n. 104 del 1992 - che si siano realizzate in dipendenza di eventi successivi alla nascita, ovvero in esito a malattie di natura progressiva, così realizzando un inammissibile impedimento all'effettività della assistenza e della integrazione del disabile nell'ambito di un nucleo familiare in cui ricorrono le medesime esigenze che l'istituto in questione è deputato a soddisfare. La norma censurata, infatti, esclude attualmente dal novero dei beneficiari del congedo straordinario retribuito il coniuge, pur essendo questi, sulla base del vincolo matrimoniale ed in conformità dell'ordinamento giuridico vigente, tenuto al primo posto (art. 433 cod. civ.) all'adempimento degli obblighi di assistenza morale e materiale del proprio consorte; obblighi che l'ordinamento fa derivare dal matrimonio. Ciò implica, come risultato, un trattamento deteriore del coniuge del disabile, rispetto ai componenti della famiglia di origine.
2.6.- Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo n. 151 del 2001, nella parte in cui non prevede al primo posto il coniuge del disabile "in situazione di gravità", con questo convivente, trattandosi di una situazione che esige la medesima protezione ed il medesimo trattamento rispetto a quelli contemplati dalla norma.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede, in via prioritaria rispetto agli altri congiunti indicati dalla norma, anche per il coniuge convivente con "soggetto con handicap in situazione di gravità", il diritto a fruire del congedo ivi indicato.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2007.
F.to: Franco BILE, Presidente
Maria Rita SAULLE, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 maggio 2007.
Sentenza della Corte Costituzionale 19 del 26 gennaio 2009
“"Giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53). Disabile - Figlio convivente - Diritto al congedo straordinario per l'assistenza - Mancata previsione.”
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Giovanni Maria FLICK (Presidente), Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi, MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promosso con ordinanza del 26 marzo 2008 dal Tribunale di Tivoli nel procedimento civile vertente tra C.F. e l'Istituto superiore «Zambeccari», iscritta al n. 244 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2008.
Visto l'atto di costituzione di C.F.;
udito nell'udienza pubblica del 2 dicembre 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;
udito l'avvocato Giampaolo Ruggiero per C.F.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 26 marzo 2008, il Tribunale di Tivoli, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), per violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione.
Ad avviso del Tribunale rimettente, la norma contrasterebbe con i citati parametri costituzionali «nella parte in cui esclude dal novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto il figlio convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona affetta» da disabilità grave.
1.1. – Nell'ordinanza di rimessione si precisa che il giudizio principale ha ad oggetto il ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 del codice di procedura civile avverso il provvedimento con il quale un Istituto statale di istruzione superiore aveva respinto l'istanza avanzata da un proprio dipendente – inquadrato come collaboratore scolastico a tempo indeterminato – finalizzata ad ottenere il riconoscimento del diritto al congedo straordinario retribuito per poter assistere la madre in situazione di disabilità grave, certificata ai sensi dell'art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), in quanto unico soggetto convivente.
Il rigetto dell'istanza da parte dell'Amministrazione, afferma il rimettente, è stato motivato in ragione della mancata menzione espressa, nella disposizione censurata, del figlio del genitore disabile tra i soggetti legittimati alla fruizione del congedo straordinario retribuito.
2. – In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente osserva che questa Corte, con le sentenze n. 233 del 2005 e n. 158 del 2007, ha esteso il beneficio in esame; con la prima pronuncia, ai fratelli o alle sorelle conviventi nell'ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all'assistenza del figlio in situazione di disabilità grave perché totalmente inabili; con la seconda pronuncia, al coniuge convivente del disabile.
In particolare, ad avviso del giudice a quo, rileverebbe nel caso di specie l'affermazione di questa Corte secondo la quale la «ratio legis della disposizione normativa in esame consiste nel favorire l'assistenza al soggetto con handicap grave mediante la previsione del diritto ad un congedo straordinario - rimunerato in misura corrispondente all'ultima retribuzione e coperto da contribuzione figurativa - che, all'evidente fine di assicurare continuità nelle cure e nell'assistenza ed evitare vuoti pregiudizievoli alla salute psicofisica del soggetto diversamente abile, è riconosciuto non solo in capo alla lavoratrice madre o in alternativa al lavoratore padre ma anche, dopo la loro scomparsa, a favore di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi» (sentenza n. 233 del 2005). Il rimettente sottolinea, altresì, che, sempre secondo questa Corte, «l'interesse primario cui è preposta la norma in questione – ancorché sistematicamente collocata nell'ambito di un corpo normativo in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità – è quello di assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio dell'assistito» (sentenza n. 158 del 2007).
3. – Alla luce di tali premesse, secondo il Tribunale di Tivoli, l'esclusione del figlio del disabile dal novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo retribuito previsto dall'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, in mancanza di altre persone idonee ad occuparsi dello stesso, contrasterebbe in primo luogo con l'art. 3 della Costituzione, posto che lo «status di figlio è fonte dell'obbligo alimentare previsto dall'art. 433 del codice civile, nell'ambito del quale il figlio medesimo è collocato in via prioritaria rispetto allo stesso genitore dell'avente diritto»; di conseguenza, il mancato riconoscimento del relativo diritto nei confronti del figlio convivente, rispetto a quanto previsto per i genitori, il coniuge ed i fratelli conviventi, determinerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento del figlio rispetto agli altri congiunti del disabile.
In secondo luogo, sempre ad avviso del giudice a quo, detta esclusione violerebbe anche l'art. 2 Cost., «che richiede il rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà e la conseguente predisposizione di misure che consentano l'esercizio dei medesimi», nonché l'art. 32 Cost., poiché il diritto alla salute non verrebbe sufficientemente tutelato a causa della mancata garanzia ad un «soggetto lavoratore, avente lo status di unico convivente con persona affetta da stabile disabilità», della «predisposizione di idonee misure finalizzate alla prestazione della necessaria assistenza».
4. – In punto di rilevanza, infine, il Tribunale di Tivoli osserva che «la pretesa azionata dal ricorrente non può che essere esaminata in riferimento» alla disposizione censurata, risultando altresì dagli atti di causa che «l'istante è l'unico soggetto convivente con la madre […] riconosciuta affetta da handicap grave, ai sensi dell'art. 3, comma 3, legge n. 104 del 1992, dalla competente commissione della AUSL locale» e che il rigetto da parte della autorità scolastica dell'istanza di concessione del congedo straordinario avanzata dal ricorrente è motivata unicamente dalla mancata inclusione, nel novero dei soggetti legittimati, del figlio del disabile.
5. – Con memoria depositata in data 17 luglio 2008, si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia accolta.
La parte privata, dopo aver ribadito la ricostruzione dei fatti e le argomentazioni svolte dal giudice rimettente, deduce in particolare che la disparità di trattamento determinata dall'esclusione del figlio di un disabile dai soggetti legittimati a poter usufruire del congedo straordinario retribuito riserverebbe «irragionevolmente una minor tutela sia al nucleo familiare del disabile […], rispetto a quella riservata alla sua famiglia di origine, sia al diritto alla salute dello stesso, la cui realizzazione è assicurata anche attraverso il sostegno economico della famiglia che lo assiste».
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Tivoli, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), «nella parte in cui esclude dal novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto il figlio convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona affetta» da disabilità grave, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione.
Ad avviso del giudice rimettente, infatti, la norma censurata, riconoscendo il diritto al congedo straordinario retribuito esclusivamente ai genitori della persona in situazione di disabilità grave, o, in alternativa, in caso di loro scomparsa o impossibilità (dopo la sentenza n. 233 del 2005 di questa Corte), ai fratelli e sorelle con essa conviventi, nonché (dopo la successiva sentenza n. 158 del 2007) al coniuge convivente del disabile, si porrebbe in contrasto con l'art. 3, primo comma, Cost., determinando un ingiustificato trattamento deteriore di un soggetto, il figlio convivente, tenuto ai medesimi obblighi di assistenza morale e materiale nei confronti del disabile.
La norma in questione, al contempo, contrasterebbe con l'art. 2 Cost., il quale, imponendo il rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà, richiederebbe la predisposizione di misure idonee a consentirne l'adempimento, nonché con l'art. 32 Cost., in quanto la garanzia del diritto alla salute, ivi prevista, risulterebbe vanificata dalla mancata previsione del diritto al congedo straordinario a favore dell'unico soggetto convivente con la persona affetta da stabile disabilità e bisognosa della necessaria assistenza.
2. – La questione è fondata.
2.1. – Questa Corte ha operato un primo vaglio della norma censurata relativa all'istituto del congedo straordinario, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non prevedeva il diritto di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con un disabile grave a fruire del congedo ivi indicato, nell'ipotesi in cui i genitori fossero impossibilitati a provvedere all'assistenza del figlio handicappato perché totalmente inabili (sentenza n. 233 del 2005).
In quell'occasione la Corte ha sottolineato che il congedo straordinario retribuito si iscrive negli interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie che si fanno carico dell'assistenza della persona diversamente abile, evidenziando altresì il rapporto di stretta e diretta correlazione di detto istituto con le finalità perseguite dalla legge n. 104 del 1992, ed in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica della persona handicappata e di promozione della sua integrazione nella famiglia.
2.2. – Questa Corte ha poi dichiarato l'illegittimità costituzionale della medesima disposizione, nella parte in cui non includeva nel novero dei soggetti beneficiari, ed in via prioritaria rispetto agli altri congiunti indicati dalla norma, il coniuge convivente della persona in situazione di disabilità grave (sentenza n. 158 del 2007).
Con tale pronuncia si è posta in evidenza la ratio dell'istituto del congedo straordinario retribuito, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato, rilevandosi che «sin dal momento della sua introduzione, […] l'istituto in questione mirava a tutelare una situazione di assistenza della persona con handicap grave già in atto, pur limitando l'ambito di operatività del beneficio ai componenti (genitori e, in caso di loro scomparsa, fratelli) della sola famiglia di origine del disabile». Conseguentemente, si è affermato che «l'interesse primario cui è preposta la norma in questione – ancorché sistematicamente collocata nell'ambito di un corpo normativo in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità – è quello di assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio dell'assistito».
Sulla base di tali premesse, questa Corte ha ritenuto che il trattamento riservato dalla norma censurata al lavoratore coniugato con un disabile, che versi in situazione di gravità e con questo convivente, ometteva di considerare le situazioni di compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali, tali da «rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione» – secondo quanto previsto dall'art. 3 della legge n. 104 del 1992 – che si fossero realizzate in dipendenza di eventi successivi alla nascita ovvero in esito a malattie di natura progressiva. In tal modo la stessa norma avrebbe comportato un inammissibile impedimento all'effettività dell'assistenza ed integrazione del disabile stesso nell'ambito di un nucleo familiare in cui ricorrono le medesime esigenze che l'istituto in questione è deputato a soddisfare, in violazione degli artt. 2, 3, 29 e 32 Cost.
2.3. – I principi appena richiamati sono applicabili anche all'ipotesi oggetto del presente giudizio.
La disposizione censurata, omettendo di prevedere tra i beneficiari del congedo straordinario retribuito il figlio convivente, anche qualora questi sia l'unico soggetto in grado di provvedere all'assistenza della persona affetta da handicap grave, viola gli artt. 2, 3 e 32 Cost., ponendosi in contrasto con la ratio dell'istituto. Questa, infatti, come sopra evidenziato, consiste essenzialmente nel favorire l'assistenza al disabile grave in ambito familiare e nell'assicurare continuità nelle cure e nell'assistenza, al fine di evitare lacune nella tutela della salute psico-fisica dello stesso, e ciò a prescindere dall'età e dalla condizione di figlio di quest'ultimo.
Inoltre, la suddetta omissione determina un trattamento deteriore dell'unico figlio convivente del disabile – allorché sia anche il solo soggetto in grado di assisterlo – rispetto agli altri componenti del nucleo familiare di quest'ultimo espressamente contemplati dalla disposizione oggetto di censura; trattamento deteriore che, diversificando situazioni omogenee, quanto agli obblighi inderogabili di solidarietà derivanti dal legame familiare, risulta privo di ogni ragionevole giustificazione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto il figlio convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2009.
F.to:
Giovanni Maria FLICK, Presidente
Maria Rita SAULLE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2009.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Sentenza 6 del 30 gennaio 1980
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Avv. Leonetto AMADEI Presidente
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, sostituito dall'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie); dell'art. 22, comma quinto, della legge 21 luglio 1965, n. 903 (avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 27 maggio 1975 dal giudice del lavoro del tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra Bensi Aurelio e l'INPS, iscritta al n. 302 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 235 del 3 settembre 1975;
2) ordinanza emessa il 15 gennaio 1976 dal tribunale di Ravenna nel procedimento civile vertente tra Zeccoli Tonino e l'INPS, iscritta al n. 137 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 85 del 31 marzo 1976;
3) ordinanza emessa il 18 marzo 1976 dal tribunale di Ravenna nel procedimento civile vertente tra Gatta Alvaro e l'INPS, iscritta al n. 357 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 158 del 16 giugno 1976;
4) ordinanza emessa il 12 luglio 1976 dal pretore di Bologna nel procedimento civile vertente tra Zanasi Germano e l'INPS, iscritta al n. 645 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 333 del l 5 dicembre 1976;
5) ordinanza emessa il 4 febbraio 1977 dal pretore di Genova nel procedimento civile vertente tra Oddone Ugo e l'INPS, iscritta al n. 160 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 141 del 25 maggio 1977;
6) ordinanza emessa il 22 novembre 1978 dal pretore di Reggio Emilia nel procedimento civile vertente tra Roversi Giuseppe e l'INPS, iscritta al n. 25 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 73 del 14 marzo 1979.
Visti gli atti di costituzione dell'INPS, di Zanasi Germano, di Roversi Giuseppe, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 10 ottobre 1979 il Giudice relatore Giulio Gionfrida;
uditi gli avvocati Ettore Patrizi per Zanasi, Marco Vais per Roversi, Paolo Boer per l'INPS e il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento civile, vertente tra Aurelio Bensi e l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale ed avente ad oggetto riconoscimento del diritto a pensione di riversibilità, l'adito giudice del lavoro del Tribunale di Genova ha sollevato, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, questione di legittimità, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 13, comma quarto, r.d.l. 1939 n. 636 sub art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (ora sostituito dall'art. 22, comma quinto, della legge 21 luglio 1965, n. 903), < perchè tale norma ammette il marito, quale coniuge superstite, al godimento della pensione di riversibilità soltanto quando sia riconosciuto invalido ai sensi della stessa legge, mentre non richiede questa condizione per la moglie superstite >.
2. - Analoga questione di costituzionalità è stata sollevata anche: dal Tribunale di Ravenna, con ordinanze 15 gennaio e 18 marzo 1976 (in cause Zeccoli-INPS e Gatta-INPS) in riferimento agli artt. 29, 31, 37, 38 oltrechè 3, della Costituzione; dal Pretore di Bologna, con ordinanza 12 luglio 1976 (in causa Zanasi-INPS), in riferimento agli artt. 3,4,29,31,37, 38 della Costituzione; dal Pretore di Genova, con ordinanza 4 febbraio 1977 (in causa Oddone-INPS), per contrasto con gli artt. 3,4,37, 38 della Costituzione; dal Pretore di Reggio Emilia, con ordinanza 22 novembre 1978 (in causa Roversi-INPS.), in riferimento al solo art. 3 della Costituzione.
3. - Nei giudizi relativi alle ordinanze del Tribunale di Genova e di Ravenna e del Pretore di Reggio Emilia si è costituito il convenuto INPS, che ha sostenuto la piena legittimità della normativa impugnata.
Opposte conclusioni hanno rassegnato, invece, le parti private Germano Zanasi e Giuseppe Roversi, costituitesi rispettivamente nei giudizi relativi alle ordinanze del Pretore di Bologna e di Reggio Emilia.
In questo secondo giudizio e in quello promosso dal Tribunale di Ravenna è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, la quale ha concluso per una dichiarazione di infondatezza della questione sollevata.
Considerato in diritto
1. - I Tribunali di Genova e Ravenna ed i Pretori di Bologna, Genova e Reggio Emilia, con le ordinanze in epigrafe indicate, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (contenente modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria), sostituito con l'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 e con l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, per la parte in cui detta norma stabilisce che spetta la pensione di riversibilità al marito superstite < solo nel caso che esso sia riconosciuto invalido al lavoro >, mentre analoga condizione non prevede quando superstite sia invece la moglie.
La norma è denunziata per contrasto con l'art. 3 della Costituzione e, dai Pretori di Reggio Emilia e Genova, anche in relazione (rispettivamente) agli artt. 4, 37, 38, 29 e 31 della Costituzione.
Poiché la questione di legittimità costituzionale devoluta alla Corte è sostanzialmente unica, i relativi giudizi vengono riuniti al fine della decisione con unica sentenza.
2. - Il profilo ricorrente ed assorbente, sotto cui la questione è prospettata nelle varie ordinanze di rinvio, è quello del mancato rispetto del principio di eguaglianza da parte del legislatore.
Il dato di comparazione è rappresentato dal comma primo del citato art. 13 r.d.l. n. 636/1939, secondo cui nel caso di morte del pensionato o dell'assicurato, e semprechè per quest'ultimo sussistano al momento della morte le condizioni di assicurazione e contribuzione, spetta il trattamento di pensione, cosiddetto appunto di riversibilità, alla moglie superstite. E, raffrontata tale disposizione con la diversa disciplina stabilita, nel successivo comma quinto dello stesso art. 13, per l'ipotesi opposta che superstite sia il marito in relazione alla quale è previsto invece che la pensione è corrisposta solo se egli sia riconosciuto invalido al lavoro si denunzia che le due situazioni, che sarebbero identiche, sono regolate in maniera difforme, senza che la disparità di trattamento abbia una razionale giustificazione, ma unicamente per motivi di diversità di sesso del coniuge superstite.
3. - La questione così prospettata è già stata esaminata da questa Corte che, con sentenza n. 201 del 1972 (che i giudici a quibus non hanno mancato di ricordare), ebbe ad escludere il già allora dedotto contrasto dell'art. 13 r.d.l. 1939 n. 636 con l'art. 3 della Costituzione, ritenendo (anche in relazione alla precedente sentenza n. 119 del 1972, che aveva respinto analogo quesito di costituzionalità della corrispondente disposizione per le pensioni a carico dello Stato, di cui all'art. 11 legge 1958 n. 46) che non potessero essere qualificate eguali, e quindi meritevoli dello stesso trattamento giuridico, le situazioni conseguenti alla morte del dipendente o pensionato, qualora superstite fosse la moglie ovvero il marito. E ciò argomentò < dalla considerazione della realtà sociale che denuncia nel campo del lavoro la minore probabilità che sia il marito anziché la moglie a dipendere economicamente dal coniuge assicurato o pensionato e fa apparire tale situazione come normale >.
Questa affermazione viene ora appunto rimessa in discussione dai giudici a quibus. I quali osservano criticamente sul punto che la realtà del lavoro femminile nell'odierno assetto socio-economico del Paese e la nuova configurazione legislativa dei rapporti patrimoniali tra i coniugi (introdotta con legge n. 151 del 1975 di riforma del diritto di famiglia) non autorizzerebbero più una tale presunzione di dipendenza economica della moglie dal marito.
4. - Ritiene la Corte, superando i propri ricordati precedenti, che la questione oggi nuovamente sollevata sia fondata, a prescindere da un esame comparativo delle posizioni dell'uomo e della donna quanto alle possibilità di accesso al lavoro e al dato statistico della sua prestazione.
Infatti ciò che unicamente rileva è che, rispetto al profilo delle finalità di tutela perseguite dal legislatore con l'estensione del trattamento di pensione al coniuge superstite, la situazione si presenta con connotati assolutamente identici di fronte al decesso del lavoratore assicurato o pensionato, sia questi il marito ovvero la moglie.
5. - Occorre, invero, considerare che già nel sistema previdenziale per i dipendenti pubblici attuato dalla prima legge (14 febbraio 1861, n. 173) di organizzazione amministrativa dello Stato italiano e definito nel successivo testo unico approvato con r.d. 21 febbraio 1895, n. 70, in cui si rinviene (art. 104) la prima regolamentazione dell'istituto in esame, l'estensione del trattamento di pensione in favore della moglie superstite del dipendente defunto tendeva a realizzare una sorta di proiezione oltre la morte della funzione di sostentamento assolta in vita dal reddito del marito, anche in correlazione all'obbligo normativo in tal senso esistente.
E ciò, non tanto per eliminare uno stato di bisogno quale poi previsto come presupposto costante dalle disposizioni estensive del beneficio della riversibilità ad altre categorie di soggetti come i figli maggiorenni, i collaterali e gli ascendenti , sibbene per porre al riparo il coniuge dalla eventualità stessa del bisogno.
Il che, appunto, dà ragione del fatto che non fossero richieste, per la moglie superstite, altre condizioni che quelle stesse costitutive del diritto a pensione del lavoratore defunto.
La mancata indicazione del marito tra i beneficiari del trattamento di riversibilità si spiega sempre nell'ottica della regolamentazione originaria dell'istituto su richiamata non tanto con il fatto che il lavoro della donna coniugata non trovasse riscontro nella situazione sociale ed economica dell'epoca, almeno come dato di frequenza apprezzabile, quanto e soprattutto in collegamento alla disciplina civilistica che, di fronte ad un eventuale reddito di lavoro della moglie, non prevedeva un obbligo di destinazione al sostentamento del marito, se non per l'ipotesi eccezionale che questi non avesse mezzi sufficienti e nei limiti di tale situazione di bisogno.
6. - A tale normativa previdenziale del pubblico impiego si è sostanzialmente ispirata la legge n. 636 del 1939 sulle assicurazioni generali invalidità e vecchiaia, che ha introdotto l'istituto della riversibilità nell'ambito del lavoro privato, là dove ha previsto il diritto a pensione della moglie superstite indipendentemente da un suo stato di bisogno effettivo o presunto.
E, nell'estendere il trattamento di riversibilità anche in favore del marito superstite, la stessa legge del 1939 (con la disposizione appunto di cui all'art. 13, a sua volta poi ricalcato dall'art. 11 della legge 1958, n. 46 per i pubblici dipendenti) lo ha subordinato alla condizione dell'invalidità lavorativa, per identiche ragioni di parallelismo con la disciplina del codice civile, quanto alla detta correlazione tra apporto economico della moglie alla famiglia e limite dello stato di bisogno del marito.
7. - Successivamente, pero, la situazione sociale ed economica del paese come esattamente sottolineato anche in varie ordinanze dei giudici di rinvio è mutata profondamente. Ed in tale nuovo contesto il lavoro femminile si è inserito come fenomeno di innegabile rilevanza sociale. In particolare, il lavoro della donna coniugata, indipendentemente da ogni considerazione statistica di frequenza, è venuto assumendo, con riguardo alle ipotesi in cui in fatto comunque si verifica, connotazione non diversa da quella del lavoro del marito, quanto alla destinazione del relativo reddito nell'ambito della famiglia, per il soddisfacimento degli interessi comuni di questa.
Questa realtà, di assoluta evidenza sul piano effettuale, si rispecchia del resto ora anche nella previsione normativa del l'art. 143 cod. civ., quale sostituito dall'art. 24 della legge di riforma del diritto di famiglia 19 maggio 1975, n. 151 (secondo cui < entrambi i coniugi sono tenuti ciascuno in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo a contribuire ai bisogni della famiglia >).
Ma giova notare che, già prima e indipendentemente da questo intervento legislativo, l'esigenza di un'assoluta equiparazione risultava, sul piano del fondamento normativo, direttamente dal principio di parità dei coniugi sancito dagli articoli 3 e 29 della Carta costituzionale; sicché la riforma del diritto di famiglia non ha fatto che estrinsecare quanto era implicito nel dettato costituzionale.
Con tale dettato l'attuale art. 143 cod. civ. evidentemente si è posto in sintonia; diversamente dal precedente art. 145 del codice civile. Il quale ultimo, per altro, sia pur in prospettiva rovesciata (secondo i termini della questione a suo tempo sollevata) già aveva formato oggetto di decisione di parziale illegittimità (sentenza n. 133 del 1970), sul presupposto appunto dell'esigenza di rispetto della parità dei coniugi nei loro rapporti patrimoniali.
8. - Dovendo, pertanto, riconoscersi che la funzione di apporto economico alla famiglia assolta dal reddito lavorativo della moglie (ove di fatto questo sussista) è identica a quella assicurata dal reddito lavorativo del marito, ne consegue che la normativa sulla riversibilità, che tale apporto economico intende perpetuare oltre la morte del coniuge lavoratore, non può razionalmente distinguere nella disciplina le due situazioni (sotto il profilo considerato identiche) conseguenti rispettiva mente alla morte della moglie o del marito assicurato o pensionato.
A questa logica, rispettosa dei precetti costituzionali su indicati, si ispira la nuova legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) il cui art. 11 stabilisce testualmente che < le prestazioni ai superstiti erogate dall'assicurazione generale obbligatoria I.V.S. sono estese alle stesse condizioni previste per la moglie dell'assicurato o pensionato al marito dell'assicurata o della pensionata deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge >.
9. - La normativa precedente e cioè appunto l'art. 13 r.d. 1939 n. 636 nella parte impugnata in contrasto, invece, per le ragioni che si è detto con i parametri di cui agli artt. 3 e 29 della Costituzione, va conseguenzialmente ora dichiarata illegittima.
E tale dichiarazione va estesa, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, all'ultimo inciso dell'art. 11, comma primo, legge n. 903 del 1977 cit., in quanto limita la prevista attribuzione della pensione di riversibilità, alle stesse condizioni previste per la moglie superstite, al marito della assicurata o della pensionata < deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge >: con il che la pensione di riversibilità spetta comunque al marito superstite quale che sia la data del decesso della assicurata, o pensionata.
Quanto all'art. 11 della legge 1958 n. 46 (che contiene norma analoga a quella dell'art. 13 r.d. n. 636, comma quinto, in materia di pensione per i dipendenti statali) non si pone problema di declaratoria di illegittimità derivata, risultando tale norma abrogata dall'art. 11 legge 1977 n. 903, che, ex comma secondo, si applica < anche ai dipendenti dello Stato >, e, per effetto della dichiarazione di parziale illegittimità di cui sopra, senza limitazioni temporali.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 13 r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (Modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria), convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, sostituito con l'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (riordinamento delle pensioni sul l'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti), e con l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), nella parte in cui (comma quinto) stabilisce che < se superstite è il marito la pensione è corrisposta solo nel caso che esso sia riconosciuto invalido al lavoro ai sensi del primo comma dell'art. 10 >;
dichiara altresì d'ufficio, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la illegittimità costituzionale dell'art. 11, comma primo, della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) limitatamente alle parole <deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge>.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25/01/80.
Leonetto AMADEI – Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI – Michele ROSSANO – Antonino DE STEFANO – Leopoldo ELIA – Guglielmo ROEHRSSEN – Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI – Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE – Antonio LA PERGOLA – Virgilio ANDRIOLI
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 30/01/80.
Sentenza Corte Cassazione Civile 7701 del 16 maggio 2003
Svolgimento del processo
Con ricorso al tribunale di Lucca, l’Inps ha proposto appello avverso la sentenza dei 27 novembre 1997, con la quale il pretore di Lucca aveva accolto la domanda di Mucci Pietro, il quale aveva chiesto il riconoscimento ai sensi dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992, del diritto a godere dei permessi retribuiti avendo un figlio gravemente handicappato, benché la moglie non fosse lavoratrice.Con sentenza del 22 ottobre 1999 il tribunale rigettava l’appello, ritenendo che non avesse fondamento la pretesa dell’Inps, secondo la quale il beneficio si applicherebbe solo nel caso che entrambi i genitori lavorino.Ricorre per cassazione l’Inps con un unico motivo di ricorso.L’intimato non si è costituito.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso l’Inps denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992, e vizi di motivazione, in sostanza sostenendo che i permessi retribuiti spettano solo quando entrambi i genitori siano lavoratori e non spettano invece, come nel caso di specie, quando all’assistenza del minore può provvedere il genitore non lavoratore.
Il ricorso è infondato.
Invero non pare esservi dubbio sul fatto che lo spirito della legge sia quello di non lasciare il minore gravemente handicappato in balia di se stesso neanche momentaneamente, e privo di affetto ad opera di chi lo possa assistere convenientemente anche dal punto di vista materiale.
Se questo è lo scopo della legge, ove tale convenienza non sia raggiunta, come non è raggiunta ove il congiunto non lavoratore debba provvedere da solo alla incombenza, una interpretazione conforme agli scopi della legge pretende che una altra persona possa sostituire almeno momentaneamente l’avente diritto originario.
Orbene, se questa seconda persona è un lavoratore, appare ovvio e necessario che possa godere di brevi permessi retribuiti, come la sentenza impugnata ha ritenuto.
Il ricorso va pertanto rigettato.Nulla va liquidato per le spese del giudizio di cassazione non essendosi l’intimato costituito.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione
Roma, 13 marzo 2003.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 MAG. 2003
Sentenza 286 dell'8 luglio 1987
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici
Dott. Francesco SAJA , Presidente
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Prof. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL'ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco P. CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1 del d.l.l. 18 gennaio 1945, n. 39 (Disciplina del trattamento di riversibilità delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per la invalidità e la vecchiaia) nel testo sostituito dall'art. 7 della legge 12 agosto 1962, n. 1338 (Disposizioni per il miglioramento dei trattamenti di pensione dell'assicurazione obbligatoria per la invalidità, la vecchiaia e i superstiti) e riprodotto nell'art. 24 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale); dell'art. 23, comma quarto, della legge 18 agosto 1962, n. 1357 (Riordinamento dell'ente nazionale di previdenza e assistenza dei veterinari), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 3 aprile 1979 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Cattarinich Anna Maria contro l'I.N.P.S., iscritta al n. 134 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 124 dell'anno 1980;
2) ordinanza emessa l'8 gennaio 1980 dal pretore di Genova nel procedimento civile vertente tra Sconfienza Maria e Ente nazionale previdenza ed assistenza veterinari, iscritta al n. 337 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20 dell'anno 1980;
Visti gli atti di costituzione dell'I.N.P.S. e di Sconfienza Maria;
Udito nell'udienza pubblica del 1ø luglio 1987 il giudice relatore Francesco Greco;
Udito l'avv. Paolo Boer per l'I.N.P.S.;
Ritenuto in fatto
1. - Cattarinich Maria, vedova di Chifari Antonio, dipendente dell'E.N.E.L. deceduto il 21 marzo 1970, dal quale essa viveva separata per propria colpa, giusta sentenza del Tribunale di Palermo in data 5 novembre 1960, passata in giudicato, chiedeva all'I.N.P.S. la corresponsione della pensione di riversibilità a carico del Fondo speciale per i lavoratori delle imprese elettriche.
La domanda veniva respinta in sede amministrativa e, da ultimo, in sede giudiziaria con sentenza della corte di appello di Palermo.
Con ricorso per cassazione la Cattarinich sosteneva che per la pensione di rivesibilità a carico del suddetto Fondo speciale non trovava applicazione il divieto, posto in via generale per l'assicurazione obbligatoria I.V.S., di concessione della pensione stessa al coniuge separato per propria colpa; subordinatamente eccepiva l'illegittimità costituzionale delle norme istitutive di tale divieto.
La Corte di cassazione, con ordinanza emessa il 3 aprile 1979, in parziale accoglimento di quest'eccezione, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo comma n. 1, del d.l.l. 18 gennaio 1945 n. 39, nel testo sostituito dall'art. 7 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, e riprodotto dall'art. 24 della legge 30 aprile 1969, n. 153, in riferimento all'art. 3 della Costituzione nella parte in cui vieta la corresponsione della pensione di riversibilità al coniuge separato per sua colpa con sentenza passata in giudicato.
La Corte rilevava, preliminarmente, che tale divieto, contrariamente all'assunto della ricorrente, operava anche con riferimento alle pensioni a carico del menzionato fondo speciale, stante il richiamo alla disciplina comune, comprensiva delle norme censurate, contenuto nella legge 25 novembre 1971, n. 1079 (art. 9), regolatrice di tale fondo.
Riteneva, poi, rilevante l'esposta questione, osservando che un'eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate avrebbe certamente comportato il riconoscimento del diritto della ricorrente alla rivendicata pensione, pur essendosi la morte del dante causa verificata in epoca di vigenza del divieto in questione. Ciò perché tale evento si pone soltanto come circostanza che predispone alla possibile maturazione del diritto del superstite ove si verifichino tutte le altre condizioni costitutive della fattispecie normativa, alla cui completezza é legata la produzione degli effetti. Pertanto, il sopravvenire di una disposizione soppressiva di quel divieto costituisce completamento di una fattispecie in via di formazione, in presenza del presupposto della morte dell'assicurato.
Nel merito, riteneva, anzitutto, la manifesta infondatezza dell'eccezione di illegittimità costituzionale delle citate norme sollevata dalla parte privata in riferimento all'art. 38 della Costituzione, considerando estranea all'ambito di operatività di questa norma la materia delle pensioni ai superstiti. Rilevava, invece, profili di illegittimità in riferimento all'art. 3 della Costituzione in quanto:
a) mentre al coniuge separato per sua colpa é negato il diritto alla pensione di riversibilità gli é, invece, consentito di ottenere una quota della medesima ove abbia ottenuto il divorzio: il che, oltre ad essere irrazionale perché privilegia situazioni di crisi irreversibili del matrimonio (quali sono appunto quelle che ne determinano lo scioglimento) rispetto alla semplice separazione (nella quale il rapporto é ancora in vita), lo é anche perché crea un incentivo del coniuge separato per colpa a chiedere il divorzio e così a rendere definitiva quella crisi che, invece, il legislatore mira a sanare e comporre (art. 157 del codice civile);
b) ulteriore ed ingiustificata disparità di trattamento emerge dal raffronto col diritto riconosciuto alla vedova del dipendente statale, separata per colpa, alla quale spetta, se versa in stato di bisogno, un assegno alimentare (art. 11 della legge n. 46/1958);
c) attesa la natura, almeno in parte, alimentare della pensione, il divieto in questione si pone in contrasto con la linea di tendenza dell'ordinamento in materia di diritto agli alimenti: questo é assicurato, o sia in vita del debitore indipendentemente dalla colpa o addebitabilità della separazione al coniuge (art. 156 cod. civ. vecchio e nuovo testo), sia oltre la morte del debitore, in quanto il combinato disposto degli artt. 548 e 585 del cod. civ. (nuovo testo) attribuisce al coniuge cui sia stata addebitata la separazione (equiparabile, a questi fini, a coniuge separato per colpa nel previgente regime) e che godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto, il diritto ad un assegno vitalizio, sia quale legittimario che quale successore legittimo;
d) dopo la riforma del diritto di famiglia (legge n. 151/1975) é stato soppresso l'istituto della separazione per colpa; e, sebbene quello dell'addebito sia, a certi effetti, equiparato all'altro dall'art. 151, secondo comma, del cod. civ. (nuovo testo) é dubbio che, dopo detta soppressione, al coniuge separato con addebito possa disconoscersi il diritto alla pensione di riversibilità in base alla norma dettata con espresso riferimento al caso di separazione per colpa, né del resto, appare sostenibile che per effetto di detta riforma sia stata implicitamente abrogata tale norma, con conseguente venir meno, sul piano della fattispecie concreta, della rilevanza della colpa.
2. - L'ordinanza, ritualmente comunicata e notificata é stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 124 del 7 maggio 1980. Nel susseguente giudizio davanti a questa Corte si é costituito l'I.N.P.S., la cui difesa ha rilevato che:
a) analoga questione é già stata riconosciuta infondata con la sentenza n. 14/1980;
b) i nuovi profili di illegittimità costituzionale identificati dal giudice a quo, non sembrano pertinenti alla normativa censurata, ma piuttosto a quella individuata come termine di raffronto, nella parte in cui non attribuisce pari trattamento al coniuge separato per colpa, indipendentemente dalla forma di tutela previdenziale prevista o dalla natura del rapporto di lavoro dell'altro coniuge ed indipendentemente dalla persistenza o meno del vincolo di coniugio.
Invero il riferimento allo stato di bisogno come condizione sia per l'erogazione dell'assegno alimentare a favore del coniuge, separato per colpa propria, del dipendente statale (art. 11 della legge n. 46/1958), sia per l'attribuzione al coniuge divorziato di una quota di pensione (art. 2 della legge n. 436/1978), induce a ravvisare in questi istituti forme particolari di intervento sostanzialmente assistenziale, non assimilabili al trattamento di riversibilità nell'ambito del nucleo familiare superstite, che costituisce oggetto di un diritto soggettivo perfetto diretto non ad eliminare uno stato di bisogno, ma a prevenirlo (Corte costituzionale n. 6/1980).
Pertanto, i possibili dubbi di illegittimità costituzionale debbono, a tutto concedere, investire le norme che, riconoscendo siffatti trattamenti assistenziali, non ne fanno applicazione a tutti i casi analoghi a quelli espressamente considerati, non anche quelle limitative, nel senso esposto, del trattamento di reversibilità in senso proprio.
3. - Il pretore di Genova, con ordinanza emessa l'8 gennaio 1980, ha sollevato analoga questione relativamente all'art. 23, quarto comma, della legge 18 agosto 1962, n. 1357 (sulla previdenza e assistenza per i veterinari), trattandosi anche nel procedimento davanti a lui della sussistenza o meno del diritto della vedova, già separata per sua colpa, di ottenere la pensione di riversibilità a seguito della morte del marito.
Il giudice a quo, in particolare, ha censurato detta norma, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, nella parte in cui esclude il diritto a pensione del coniuge superstite nei cui confronti sia stata pronunziata sentenza di separazione legale per sua colpa o per colpa di entrambi i coniugi ed in quanto riserva un trattamento differenziato e deteriore ai coniugi separati prima dell'entrata in vigore della legge 19 maggio 1975, n. 151, rispetto a quelli separati successivamente. In via subordinata, ha prospettato la questione di illegittimità costituzionale della medesima norma, in relazione all'art. 29, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui, prevedendo l'esclusione suddetta, non fa eccezione per il caso in cui la colpa del coniuge sia stata individuata nel rifiuto della moglie di seguire il marito nella residenza unilateralmente da lui fissata.
Ritenuta la rilevanza delle questioni, in quanto la norma censurata non può ritenersi tacitamente abrogata a seguito della intervenuta soppressione dell'istituto della separazione per colpa, ha osservato che:
a) la pensione ai superstiti non ha natura successoria, perché spettante anche in caso di rinunzia all'eredità e regolata automaticamente da specifiche leggi previdenziali le quali, fra l'altro, disciplinano, in modo diverso dalle norme generali sulle successioni, il concorso fra più aventi diritto e la perdita del diritto stesso o pongono regole, almeno parzialmente incompatibili con quelle successorie (non trasmissibilità del diritto. Pertanto, non possono invocarsi quelle ragioni che, anche secondo il nuovo diritto di famiglia (art. 548 del c.c., modificato dall'art. 182 della legge n. 151/1975), giustificano un diverso trattamento, sul piano successorio, del coniuge separato con addebito rispetto a quello cui non sia stata addebitata la separazione;
b) acquistandosi, dunque, la pensione di riversibilità iure proprio da parte del beneficiario, in relazione a fatti oggettivi (stato di bisogno e riferibilità ad una determinata posizione previdenziale) il divieto della sua corresponsione in presenza di vicende attinenti a rapporti interpersonali ed estranee a tali fatti (quali sono quelle che hanno condotto al riconoscimento della colpa) viola doppiamente l'art. 3 della Costituzione, sia perché crea disparità di trattamento fra coniugi separati per colpa (anteriormente alla riforma del diritto di famiglia) e coniugi separati con addebito (dopo la riforma stessa), nei confronti dei quali non potrebbe operare lo stesso divieto; sia perché appare intrinsecamente irrazionale il rilievo preclusivo riconosciuto alle suddette vicende personali, rispetto ad un diritto causalmente ricollegabili ai suddetti fatti oggettivi: eloquente dimostrazione ne é l'evenienza che, per effetto di ciò, il coniuge assicurato si trova a dover versare contributi commisurati anche alla copertura del rischio della propria premorienza, senza che poi l'avente diritto possa fruire della prestazione;
c) é, inoltre, incoerente, col disposto dell'art. 38, secondo comma, Cost. la previsione della totale perdita di un diritto previdenziale per fatti del tutto estranei al rapporto assicurativo.
Sulla questione sollevata in via subordinata il giudice a quo ha rilevato che:
a) nel caso di specie la colpa del coniuge fu ravvisata nel suo rifiuto di seguire l'altro coniuge nella residenza da questi unilateralmente fissata; e ciò in base all'allora vigente art. 144 cod.civ. che, appunto, consentiva al marito di fissare la residenza ritenuta opportuna, facendo obbligo alla moglie di seguirlo nella stessa;
b) la norma già all'epoca contrastava con il principio dell'uguaglianza dei coniugi sancito dall'art. 29 della Costituzione e la modificazione successivamente dispostane dimostra che essa non poteva ricondursi fra i limiti legali di tale principio fatti salvi dallo stesso art. 29 a garanzia dell'unità familiare;
c) d'altra parte il giudicato formatosi nella fattispecie riguardo alla colpa rende irrilevante una questione di costituzionalità del citato art. 144 cod. civ. nella sua vecchia formulazione; ciò tuttavia, non toglie che la lesione del suddetto principio rilevi sotto l'angolo visuale proprio della norma istitutiva del divieto in questione, perché estendendosi esso a qualsiasi caso di separazione per colpa, perpetua l'illegittima disuguaglianza fra i coniugi sul piano dei loro diritti previdenziali.
4. - L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 201 del 23 luglio 1980.
Si é costituita la parte privata, depositando una memoria di contenuto sostanzialmente analogo alle argomentazioni svolte dal giudice a quo per motivare l'esposto dubbio di incostituzionalità.
Considerato in diritto
1. - I due ricorsi possono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza, in quanto prospettano questione sostanzialmente identica.
2.1. - La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell'art. 1, primo comma, n. 1 del d.l.l. 18 gennaio 1945, n. 39, nel testo sostituito dall'art. 7 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, e riprodotto nell'art. 24 della legge 30 aprile 1969, n. 153, nella parte in cui esclude il diritto del coniuge superstite, separato per sua colpa con sentenza passata in giudicato, alla pensione di riversibilità. Esso violerebbe l'art. 3 della Costituzione perché:
a) discrimina il coniuge separato per colpa rispetto al coniuge divorziato al quale può essere riconosciuto il diritto ad una quota di detta pensione;
b) e rispetto al coniuge del dipendente statale al quale, nonostante la separazione per colpa, spetta, in caso di bisogno, un assegno alimentare;
c) sebbene la detta pensione abbia natura quali alimentare, da rilievo all'elemento della colpa che é irrilevante, invece, secondo le norme generali in materia di alimenti;
d) discrimina i coniugi separati prima della riforma del diritto di famiglia dai coniugi separati dopo, rispetto ai quali l'addebito della separazione non preclude il diritto a pensione di riversibilità.
2.2. - Il pretore di Genova dubita della legittimità costituzionale dell'art. 23, quarto comma, della legge 18 agosto 1962, n. 1357, perché sancendo l'esclusione del diritto del coniuge separato per colpa alla pensione di riversibilità violerebbe:
a) l'art. 3 della Costituzione, oltre che per le ragioni indicate dalla Corte di cassazione sub d), in quanto, esclusa la natura successoria delle pensioni di riversibilità, irrazionalmente attribuisce rilievo preclusivo a fatti soggettivi ed interpersonali estranei al rapporto previdenziale cui si ricollega il diritto alla pensione stessa;
b) l'art. 38 della Costituzione perché fatti di tal genere non possono far disconoscere la sussistenza del bisogno che, secondo tale norma, impone la somministrazione di adeguati mezzi economici;
c) infine, e subordinatamente alla declaratoria di infondatezza della questione così formulata, violerebbe l'art. 29, secondo comma, della Costituzione in quanto, non essendo escluso dai casi di separazione per colpa (preclusivi del diritto de quo) quello riconducibile al rifiuto della moglie di seguire il marito nella residenza da lui unilateralmente fissata, produrrebbe la lesione del principio di parità dei coniugi.
3. - La questione é fondata.
L'evoluzione dell'istituto della pensione di riversibilità e la più incisiva generalizzazione del principio di solidarietà (artt. 3 e 38 della Costituzione), come ritenuto anche da questa Corte (sent. n. 169/1986), l'espansione della linea di tendenza alla unificazione o, quanto meno, alla equiparazione dei regimi pensionistici dei lavoratori pubblici e privati, l'evoluzione della disciplina legislativa dei rapporti tra i coniugi in caso di scioglimento del matrimonio, di cui, per alcuni aspetti, si é occupata questa Corte (sent. n. 215/1985) in relazione al testo normativo allora vigente (legge n. 436/1978) però pressoché identico a quello ora in vigore (legge n. 74/1987), inducono ad una rimeditazione delle considerazioni svolte nella precedente sentenza (n. 14/1980) con cui é stata decisa la stessa questione.
3.1. - Anzitutto si rileva che il legislatore non ha affatto accolto l'invito, allora rivoltogli, di provvedere con apposita norma a soddisfare l'esigenza, anche allora considerata giusta, di attribuire al coniuge del lavoratore privato separato per colpa, ed ora con addebito della separazione, una pensione o una quota di pensione di riversibilità condizionata allo stato di bisogno: e ciò specialmente quando vi sia il riconoscimento in suo favore del diritto agli alimenti, tenuto conto del fatto che il settore pubblico, già prima della riforma del diritto di famiglia, prevedeva, a favore dello stesso coniuge separato per colpa, l'attribuzione di una quota della pensione di riversibilità (art. 81, quarto comma, e art. 88, quarto e quinto comma, del testo unico 29 dicembre 1973, n. 1092 - Trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato).
3.2. - A maggiore specificazione di quanto genericamente rilevato, si osserva che la pensione di riversibilità appartenente al più ampio genus delle pensioni ai superstiti, é una forma di tutela previdenziale nella quale l'evento protetto é la morte, cioè, un fatto naturale che, secondo una presunzione legislativa, crea una situazione di bisogno per i familiari del defunto, i quali sono i soggetti protetti.
La disciplina, in un primo momento, é stata diversa per i soggetti del rapporto pubblico e per i lavoratori del settore privato.
Per gli uni la pensione era ritenuta dovuta per effetto della continuazione del rapporto di impiego; per gli altri conseguiva alla continuazione delle contribuzioni e la sua erogazione si giustificava come corrispettivo dei contributi versati da parte degli stessi lavoratori e dei datori di lavoro per l'attività di lavoro, che poteva essere stata anche discontinua e svolta alle dipendenze di diversi datori di lavoro.
In un primo momento, per il settore privato, la pensione di riversiblità é stata riconosciuta solo ad alcune categorie che erano in grado di sostenerne il costo; successivamente é stata generalizzata.
L'evoluzione legislativa ha dato, poi, al trattamento di cui si discute, un fondamento diverso dal precedente e sostanzialmente identico per i due settori, pubblico e privato.
La si considera, ormai, come una forma di tutela previdenziale ed uno strumento necessario per il perseguimento dell'interesse della collettività alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed alla garanzia di quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l'effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3, secondo comma, della Costituzione) con una riserva, costituzionalmente riconosciuta, a favore del lavoratore, di un trattamento preferenziale (art. 38, secondo comma, della Costituzione) rispetto alla generalità dei cittadini (art. 38, primo comma, della Costituzione).
Della solidarietà generale, in definitiva, fa parte quella solidarietà che si realizza quando il bisogno colpisce i lavoratori ed i loro familiari per i quali, però, non può prescindersi dalla necessaria ricorrenza dei due requisiti della vivenza a carico e dello stato di bisogno, i quali si pongono come presupposti del trattamento, così come ha ritenuto anche questa Corte (sentt. nn. 6 e 7 del 1980).
Per effetto della morte del lavoratore, la situazione pregressa della vivenza a carico subisce interruzione, ma il trattamento di riversibilità realizza la garanzia della continuità del sostentamento ai superstiti.
Questa stessa Corte ha riconosciuto (sent. n. 213/1985) anche alla indennità di buonuscita la stessa funzione previdenziale, con l'esigenza della ricorrenza dei suddetti presupposti, e l'ha ritenuta spettante anche al coniuge separato per colpa o con addebito della separazione, parificando le due situazioni, quella della separazione per colpa, precedente alla riforma del diritto di famiglia, e quella della separazione con addebito nell'attuale regime.
Pertanto, le norme censurate non solo non sono state abrogate a seguito della modifica operata dal nuovo regime con l'introduzione dell'istituto della separazione con addebito, ma esse trovano applicazione anche in danno del coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata la separazione con addebito.
4. - Si ribadisce che la nozione di famiglia, presa in considerazione dal regime generale previdenziale e da quello specifico del settore di cui ci si occupa, non é quella ristretta alla famiglia che si costituisce con il matrimonio, con i vincoli di consanguineità e di affinità. La tutela previdenziale riguarda anche quei rapporti assistenziali che si atteggiano in modo simile a quelli familiari a condizione che il lavoratore defunto provvedesse in vita, in via non occasionale, al sostentamento di soggetti classificabili come "familiari".
Si comprendono nella famiglia "previdenziale" anche le persone legate da vincoli di affiliazione e di adozione, i figli legalmente riconosciuti o legalmente dichiarati, i figli naturali ed anche i fratelli celibi e le sorelle inabili al lavoro.
Non si richiede essenzialmente nemmeno la convivenza. Invero la convivenza non esclude la possibile autonomia socio-economica del soggetto che, pertanto, non beneficia del trattamento previdenziale, mentre la mancanza di convivenza non esclude anche la sopportazione del carico. Quello che si richiede é proprio quest'ultima condizione, intendendosi per "vivenza a carico" la cura del sostentamento del "familiare" in modo continuativo e non occasionale, in adempimento di uno specifico obbligo giuridico o di un mero dovere.
Ora, proprio i suddetti principi hanno ispirato quelle norme che nel settore pubblico assicurano anche al coniuge separato per colpa ed in stato di bisogno una quota della pensione di riversibilità del coniuge defunto; hanno determinato la previsione legale, a favore del coniuge divorziato, di un assegno la cui entità é determinata proprio tenendosi conto, oltre che del contributo dato alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio, dello stato di bisogno e delle condizioni economiche nonché della responsabilità per la rottura del matrimonio.
Invero, l'assegno ha una natura complessa ma esso oltre che risarcitorio ed indennitario é anche assistenziale.
Nel caso della morte dell' ex coniuge pensionato, a carico del quale sussisteva l'obbligo della somministrazione dell'assegno, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 898/1970, si é specificamente previsto (art. 9 della stessa legge n. 898 nel testo novellato dalla legge n. 436/1978 ed ora dalla legge n. 74/1987), a favore dell'altro ex coniuge, non passato a nuove nozze, titolare ancora del suddetto assegno, privo di mezzi adeguati e non in grado di procurarseli per ragioni oggettive, e sempre che abbia i requisiti per la pensione di riversibilità, l'attribuzione dell'intera pensione o di una parte di essa, se non concorre con l'altro coniuge o con i figli, o altrimenti di una parte della stessa, tenuto conto, tra l'altro, anche della durata del rapporto matrimoniale.
I detti trattamenti si giustificano anche con il riferimento a quella particolare solidarietà che si crea tra persone già legate dal vincolo del coniuge e che può continuare ad avere effetti rilevanti anche dopo lo scioglimento del matrimonio, proprio per la lata nozione di famiglia.
5. - É, quindi, evidente che le norme censurate, le quali escludono dall'attribuzione della pensione di riversibilità, in tutto o in parte, il coniuge separato per colpa o con addebito della separazione, contrastano con i precetti costituzionali invocati (artt. 3 e 38 della Costituzione) e creano una evidente disparità di trattamento sia rispetto al coniuge divorziato sia rispetto al coniuge del dipendente statale.
Pertanto devesi dichiarare la illegittimità costituzionale delle norme censurate nella parte in cui escludono dalla erogazione della pensione di riversibilità il coniuge separato per colpa con sentenza passata in giudicato.
6. - A seguito dell'accoglimento della questione principale, va dichiarata assorbita la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23, quarto comma, della legge 18 agosto 1962, n. 1357, sollevata in via subordinata dal pretore di Genova, in riferimento all'art. 29 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale:
a) dell'art. 1 del d.l.l. 18 gennaio 1945, n. 39 (Disciplina del trattamento di riversibilità delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità e la vecchiaia) nel testo sostituito dall'art. 7 della legge 12 agosto 1962, n. 1338 (Disposizioni per il miglioramento dei trattamenti di pensione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti) e riprodotto nell'art. 24 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale);
b) dell'art. 23, quarto comma, della legge 18 agosto 1962, n. 1357 (Riordinamento dell'ente nazionale di previdenza ed assistenza dei veterinari); nella parte in cui escludono dalla erogazione della pensione di riversibilità il coniuge separato per colpa con sentenza passata in giudicato.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 1987.
Il Presidente: SAJA
Il Redattore: GRECO
Depositata in cancelleria il 28 luglio 1987.
Il direttore della cancelleria: MINELLI