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Sentenza 82 anno 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), promosso dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento che verte tra R. B. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 2 marzo 2015, iscritta al n. 117 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti l’atto di costituzione dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 novembre 2016 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi l’avvocato Sergio Preden per l’INPS e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 2 marzo 2015, iscritta al n. 117 del registro ordinanze 2015, il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione.
Il giudice rimettente censura la norma citata, che determina la retribuzione pensionabile per l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, «nella parte in cui non prevede il diritto alla neutralizzazione dei periodi di contribuzione per disoccupazione nei limiti del quinquennio e dei contributi obbligatori, dei contributi per disoccupazione e dei contributi per integrazione salariale anche oltre il limite del quinquennio sempre che, nell’uno e nell’altro caso, gli stessi periodi contributivi non siano necessari per l’integrazione del diritto a pensione».
1.1.– In punto di fatto, il giudice a quo espone di dover decidere sul ricorso proposto da R. B., al fine di escludere dalla determinazione della retribuzione pensionabile i periodi di contribuzione ridotta dal 3 dicembre 1996 al 19 giugno 2010, relativi alla contribuzione figurativa per disoccupazione e per integrazione salariale e alla contribuzione «effettiva da lavoro dipendente».
La parte ricorrente nel giudizio principale ha dedotto di aver percepito, dal 3 dicembre 1996 al 19 giugno 2010, una retribuzione inferiore rispetto a quella precedente e, inoltre, di essere rimasta disoccupata e sospesa in cassa integrazione.
In base a tali deduzioni, la parte ricorrente ha richiesto di escludere dal computo della retribuzione pensionabile – e così di “neutralizzare” – i periodi di contribuzione obbligatoria e figurativa per integrazione salariale, anche oltre il limite del quinquennio, e i periodi contributivi per disoccupazione, che si collocano entro tale limite temporale.
Il giudice a quo, poste tali premesse, ha argomentato che i periodi indicati non sono necessari «per il perfezionamento dei requisiti di assicurazione e contribuzione richiesti per la maturazione del diritto a pensione alla data di compimento dell’età pensionabile» e che la «neutralizzazione» di tali periodi è necessaria, in quanto nessun meccanismo di computo della pensione «può mai danneggiare il lavoratore che continui a lavorare ovvero venga figurativamente considerato come al lavoro, dopo aver maturato un certo importo di pensione».
1.2.– Il giudice rimettente, dopo avere ricostruito gli antecedenti della vicenda, ha preso le mosse dalla giurisprudenza costituzionale in tema di determinazione della retribuzione pensionabile nell’ipotesi di prosecuzione volontaria dei contributi nell’assicurazione obbligatoria (sentenze n. 428 del 1992 e n. 307 del 1989) e di periodi di minore retribuzione (sentenza n. 264 del 1994) e di integrazione salariale (sentenza n. 388 del 1995).
Nella prospettiva del giudice a quo, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), i precetti costituzionali di proporzionalità tra il trattamento pensionistico e la quantità e la qualità di lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e di adeguatezza della tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), imporrebbero di negare ogni rilievo ai periodi contributivi meno favorevoli ai fini del calcolo della pensione, quando l’interessato abbia già conseguito la pensione, anche senza tali periodi.
Ad avviso del giudice rimettente, tali princìpi dovrebbero essere estesi anche ai periodi di contribuzione per disoccupazione e alla contribuzione «anche oltre il quinquennio, per tutti i periodi contributivi che non siano utili al fine del conseguimento del diritto a pensione».
2.– Nel giudizio si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con memoria del 10 luglio 2015, e ha chiesto di dichiarare manifestamente inammissibile o comunque infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Ravenna.
La difesa dell’INPS imputa al giudice rimettente di non avere offerto una motivazione esaustiva in ordine alla rilevanza della questione proposta.
Il giudice a quo, in particolare, non avrebbe fornito alcun ragguaglio sui periodi contributivi necessari per conseguire la pensione e si sarebbe limitato a indicare come pacifico il fatto che la parte ricorrente maturi il diritto alla pensione, anche senza i periodi che ha chiesto di neutralizzare.
Il giudice rimettente, inoltre, menzionerebbe indistintamente i periodi di disoccupazione entro il quinquennio e i periodi di contribuzione anche oltre il quinquennio, senza individuare alcun limite per la pronuncia di accoglimento della Corte.
3.– Con memoria del 14 luglio 2015, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare irrilevanti, inammissibili e manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna.
In punto di ammissibilità, la difesa dello Stato lamenta, in primo luogo, una carente motivazione sulla rilevanza: il giudice rimettente non avrebbe dato conto delle ragioni che renderebbero ininfluenti, ai fini del sorgere del diritto a pensione, i periodi di contribuzione per integrazione salariale e per disoccupazione.
L’Avvocatura generale dello Stato, inoltre, addebita al giudice rimettente di non avere esplorato la praticabilità di un’interpretazione rispettosa dei precetti costituzionali: i precedenti della Corte avrebbero potuto condurre all’accoglimento del ricorso, con riguardo ai periodi di contribuzione «non necessari per il conseguimento della pensione già maturata, nei limiti del quinquennio».
Nel merito, la questione non sarebbe fondata.
Secondo la difesa dello Stato, può ritenersi plausibile l’equiparazione dei periodi di disoccupazione dell’ultimo quinquennio, «connotati da contribuzione figurativa», agli altri periodi di contribuzione ammessi al beneficio della neutralizzazione e, nondimeno, non appare costituzionalmente obbligata la scelta di «neutralizzare» i periodi di contribuzione oltre il quinquennio: tale limite risponderebbe ad esigenze di certezza, che sarebbero inevitabilmente frustrate con l’estendere a ritroso, per un tempo indeterminato, i periodi di contribuzione suscettibili di essere neutralizzati.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), «nella parte in cui non prevede il diritto alla neutralizzazione dei periodi di contribuzione per disoccupazione nei limiti del quinquennio e dei contributi obbligatori, dei contributi per disoccupazione e dei contributi per integrazione salariale anche oltre il limite del quinquennio sempre che, nell’uno e nell’altro caso, gli stessi periodi contributivi non siano necessari per l’integrazione del diritto a pensione».
La norma censurata dispone che, per le pensioni liquidate dopo il 30 giugno 1982, «la retribuzione annua pensionabile per l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti» sia costituita «dalla quinta parte della somma delle retribuzioni percepite in costanza di rapporto di lavoro, o corrispondenti a periodi riconosciuti figurativamente, ovvero ad eventuale contribuzione volontaria, risultante dalle ultime 260 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione».
Il giudice a quo assume che tale disciplina, destinata, alla stregua delle convergenti allegazioni delle parti, a regolare la fattispecie controversa, contrasti con il principio di ragionevolezza, consacrato dall’art. 3 Cost. In un sistema che considera per la determinazione della retribuzione pensionabile solo l’ultimo periodo, in linea di massima più favorevole al lavoratore, sarebbe palesemente irragionevole la valutazione di un periodo di minore retribuzione nella base di calcolo della pensione.
Un meccanismo così congegnato pregiudicherebbe il lavoratore che ha già maturato il diritto a pensione, anche senza tale periodo di minore retribuzione: «a maggior lavoro e a maggior apporto contributivo» corrisponderebbe «una riduzione della pensione che il lavoratore avrebbe maturato al momento della liquidazione della pensione per effetto della precedente contribuzione» (sentenza n. 264 del 1994).
Tale riduzione della pensione si porrebbe in contrasto anche con l’art. 36, primo comma, Cost., in quanto sacrificherebbe la proporzionalità tra il trattamento pensionistico e la quantità e la qualità del lavoro prestato durante il servizio attivo.
Sarebbe pregiudicata, per altro verso, l’adeguatezza della prestazione previdenziale, con conseguente violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost.
I criteri di determinazione della retribuzione pensionabile non potrebbero in alcun caso «danneggiare il lavoratore che continui a lavorare ovvero venga figurativamente considerato come al lavoro, dopo aver maturato un certo importo di pensione» e imporrebbero di escludere dal computo i periodi che non sono necessari per conseguire il diritto alla pensione.
2.– Devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità formulate in via preliminare dalle parti.
2.1.– L’INPS e l’Avvocatura generale dello Stato hanno denunciato, sotto un primo profilo, la carenza della motivazione in ordine alla rilevanza della questione sollevata.
In particolare, sarebbero meramente assertivi gli argomenti addotti dal giudice rimettente in merito a un aspetto saliente del contendere: il giudice a quo annovera tra le circostanze non contestate il fatto che la parte ricorrente «maturi il diritto alla prestazione senza il periodo oggetto di neutralizzazione che gli arreca danno».
L’INPS, a tale riguardo, evidenzia che il giudice rimettente ha trascurato di accertare se effettivamente il ricorrente conservi «il diritto al trattamento nonostante il taglio dei periodi contributivi indicati nell’atto introduttivo del giudizio».
A tale rilievo si associa anche la difesa dello Stato, che reputa sfornito di ogni prova l’assunto che la parte ricorrente, «per maturare il diritto alla pensione», non debba fruire anche «del periodo di contribuzione per integrazione salariale e per disoccupazione».
L’eccezione deve essere disattesa.
La motivazione in ordine alla rilevanza del dubbio di costituzionalità, pur concisa, non incorre nei profili di inammissibilità segnalati dalle parti.
Nell’indicare come “non contestato” un fatto, che incide sulla rilevanza della questione proposta, il giudice a quo si è conformato alla regola di diritto, oggi enunciata dall’art. 115 del codice di procedura civile, che conferisce una precisa valenza probatoria ai fatti non specificamente contestati dalle parti costituite.
L’INPS e l’Avvocatura generale dello Stato non deducono di avere svolto contestazioni specifiche sui fatti che il giudice rimettente assume come pacifici e si limitano a obiettare che i fatti in esame devono essere suffragati da elementi di prova persuasivi.
Tali rilievi critici non si cimentano con le implicazioni del “principio di non contestazione”, che esclude dall’àmbito delle circostanze controverse, e perciò bisognose di prova, quei fatti costitutivi della pretesa che le parti non abbiano fatto segno di critiche mirate.
2.2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, in secondo luogo, l’omessa sperimentazione di un’interpretazione adeguatrice.
Alla luce delle reiterate affermazioni del principio di “neutralizzazione della contribuzione”, il giudice rimettente avrebbe potuto interpretare la norma censurata in armonia con i princìpi sanciti dalla Carta fondamentale, senza investire questa Corte della soluzione del dubbio di costituzionalità.
Neppure tale eccezione è fondata.
L’univoco tenore letterale della norma impugnata preclude un’interpretazione adeguatrice, che deve, pertanto, cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (sentenze n. 36 del 2016 e n. 78 del 2012).
Inoltre, le pronunce di questa Corte, nel vagliare l’art. 3, ottavo comma, della legge n. 297 del 1982, hanno sempre ponderato la peculiarità delle fattispecie di volta in volta scrutinate (la contribuzione volontaria, con riferimento alle diversificate discipline di settore, i periodi di minore retribuzione, l’integrazione salariale), nei rapporti con la determinazione della retribuzione pensionabile (sentenze n. 433, n. 432 e n. 201 del 1999, sentenze n. 427 del 1997, n. 388 del 1995, n. 264 del 1994, n. 428 del 1992 e n. 307 del 1989).
Le pronunce menzionate, pur presupponendo una ratio decidendi unitaria, intervengono in maniera puntuale sulla normativa applicabile, con valutazioni calibrate sulla specificità delle molteplici situazioni coinvolte.
2.3.– Coglie nel segno l’eccezione di inammissibilità svolta dall’Avvocatura generale dello Stato, con riguardo alla richiesta di estendere la “neutralizzazione” dei contributi per disoccupazione e integrazione salariale anche oltre i limiti dell’ultimo quinquennio che prelude alla decorrenza della pensione.
Il giudice rimettente equipara la contribuzione per disoccupazione che si colloca nell’ultimo quinquennio alla contribuzione per disoccupazione e per integrazione salariale che copre un periodo più risalente, senza porre in risalto le ragioni idonee a rendere a rime costituzionalmente obbligate l’addizione richiesta a questa Corte.
L’intervento auspicato si riverbera sulla determinazione del periodo di riferimento della retribuzione pensionabile, che esprime una scelta eminentemente discrezionale del legislatore (sentenza n. 388 del 1995, punto 4. del Considerato in diritto, e sentenza n. 264 del 1994, punto 3. del Considerato in diritto), volta a contemperare le esigenze di certezza con le ragioni di tutela dei diritti previdenziali dei lavoratori.
A fronte di una previsione, incentrata sulla valutazione delle retribuzioni dell’ultimo quinquennio, e del richiamo alla giurisprudenza di questa Corte, che ha inteso porre rimedio alle incongruenze del meccanismo di calcolo della retribuzione pensionabile nell’arco temporale indicato, il giudice rimettente non illustra le ragioni che allineano alle rime costituzionalmente obbligate l’estensione della “neutralizzazione” anche oltre il quinquennio.
3.– La questione è fondata con riguardo ai periodi di contribuzione per disoccupazione che si situano nelle ultime duecentosessanta settimane lavorative, in riferimento a tutti i parametri costituzionali evocati.
3.1.– Anche nel caso oggetto dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale, si applicano i princìpi a più riprese enunciati da questa Corte.
Quando il lavoratore possiede i requisiti assicurativi e contributivi per beneficiare della pensione, la contribuzione acquisita nella fase successiva non può determinare una riduzione della prestazione virtualmente già maturata.
Tale principio è stato enunciato con riguardo alla contribuzione volontaria, sulla scorta della finalità caratteristica di tale forma di contribuzione, che si prefigge di «ovviare agli effetti negativi, ai fini previdenziali, della mancata prestazione di attività lavorativa» e non può risolversi, con «paradossale risultato», in un pregiudizio per il lavoratore (sentenza n. 307 del 1989, punto 2. del Considerato in diritto).
In termini più generali, questa Corte ha in séguito censurato l’irragionevolezza di un meccanismo di determinazione della retribuzione pensionabile, che, pur preordinato a «garantire al lavoratore una più favorevole base di calcolo per la liquidazione della pensione», correlata all’ultimo scorcio della vita lavorativa, sia foriero di risultati antitetici e incida in senso riduttivo sulla pensione potenzialmente già maturata.
Un meccanismo così strutturato entra in conflitto con i princìpi di proporzionalità fra trattamento pensionistico e quantità e qualità del lavoro prestato durante il servizio attivo (art. 36, primo comma, Cost.) e di adeguatezza delle prestazioni previdenziali (art. 38, secondo comma, Cost.).
In particolare, chiamata a esaminare l’ipotesi di periodi di contribuzione obbligatoria di importo notevolmente inferiore e non necessari ai fini del perfezionamento della minima anzianità contributiva, questa Corte ha ritenuto «irragionevole e ingiusto che a maggior lavoro e a maggior apporto contributivo corrisponda una riduzione della pensione che il lavoratore avrebbe maturato al momento della liquidazione della pensione per effetto della precedente contribuzione» (sentenza n. 264 del 1994, punto 3. del Considerato in diritto).
Questa Corte ha ripreso tali argomentazioni anche nell’ipotesi di contribuzione figurativa del lavoratore collocato in regime di integrazione salariale, che subisce «la falcidia salariale imposta da eventi esterni alla sua volontà» e, in ragione della norma censurata, accusa tale pregiudizio «anche nel successivo trattamento pensionistico» (sentenza n. 388 del 1995, punto 3. del Considerato in diritto).
La natura della contribuzione versata, sia essa volontaria, obbligatoria o figurativa, non riveste alcun rilievo distintivo e non giustifica deroghe a un principio provvisto di valenza generale (sentenze n. 433 e n. 201 del 1999, n. 427 del 1997).
3.2.– Nel solco tracciato dalle pronunce di questa Corte si è mossa anche la giurisprudenza di legittimità, oramai consolidata nel ribadire che ogni forma di contribuzione, sopravvenuta rispetto al maturare dell’anzianità assicurativa e contributiva minima, deve essere esclusa dal computo della base pensionabile, ove tale apporto produca un risultato meno favorevole per l’assicurato (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 25 marzo 2014, n. 6966, e 24 novembre 2008, n. 27879). Si è precisato che la “neutralizzazione” non opera per quei periodi contributivi che concorrano ad integrare il requisito necessario per l’accesso al trattamento pensionistico (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 28 febbraio 2014, n. 4868, e 26 ottobre 2004, n. 20732).
3.3.– Anche dagli sviluppi normativi più recenti, e in particolare dall’art. 12 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), traspare il ruolo cruciale del meccanismo di “neutralizzazione”, inteso come criterio volto a evitare sperequazioni e disarmonie nella determinazione della retribuzione pensionabile.
4.– Le considerazioni svolte da questa Corte, nell’evolvere di un coerente orientamento, si impongono anche per i periodi di contribuzione per disoccupazione, relativi all’ultimo quinquennio della vita lavorativa.
4.1.– Non è senza significato, a tale riguardo, che la stessa difesa dello Stato ritenga “plausibile” un intervento della Corte, volto ad assimilare i periodi di disoccupazione dell’ultimo quinquennio agli altri periodi di contribuzione ammessi al beneficio della “neutralizzazione”.
Non si ravvisano elementi che inducano questa Corte a disattendere, per i periodi di contribuzione per disoccupazione, la ratio decidendi che l’ha orientata nella valutazione dei periodi di minore retribuzione e di integrazione salariale.
4.2.– Si deve rilevare, anche nella vicenda sottoposta all’odierno vaglio di legittimità costituzionale, che il legislatore, nel delimitare l’arco temporale di riferimento per il computo della retribuzione pensionabile, è vincolato al rispetto del canone di ragionevolezza.
Quando il diritto alla pensione sia già sorto in conseguenza dei contributi in precedenza versati, la contribuzione successiva non può compromettere la misura della prestazione potenzialmente maturata, soprattutto quando sia più esigua per fattori indipendenti dalle scelte del lavoratore.
Sarebbe intrinsecamente irragionevole un meccanismo che, per la fase successiva al perfezionamento del requisito minimo contributivo, si tramutasse in un decremento della prestazione previdenziale, in antitesi con la finalità di favore che la norma persegue, nel considerare il livello retributivo, tendenzialmente più elevato, degli ultimi anni di lavoro.
L’irragionevolezza riscontrata è lesiva, in pari tempo, dei diritti previdenziali del lavoratore, che, con riguardo alla norma censurata, questa Corte riconduce agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.
5.– Si deve pertanto dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge n. 297 del 1982, nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di lavoratore che abbia già maturato i requisiti assicurativi e contributivi per conseguire la pensione e percepisca contributi per disoccupazione nelle ultime duecentosessanta settimane antecedenti la decorrenza della pensione, la pensione liquidata non possa essere comunque inferiore a quella che sarebbe spettata, al raggiungimento dell’età pensionabile, escludendo dal computo, ad ogni effetto, i periodi di contribuzione per disoccupazione relativi alle ultime duecentosessanta settimane, in quanto non necessari ai fini del requisito dell’anzianità contributiva minima.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di lavoratore che abbia già maturato i requisiti assicurativi e contributivi per conseguire la pensione e percepisca contributi per disoccupazione nelle ultime duecentosessanta settimane antecedenti la decorrenza della pensione, la pensione liquidata non possa essere comunque inferiore a quella che sarebbe spettata, al raggiungimento dell’età pensionabile, escludendo dal computo, ad ogni effetto, i periodi di contribuzione per disoccupazione relativi alle ultime duecentosessanta settimane, in quanto non necessari ai fini del requisito dell’anzianità contributiva minima;
2) dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge n. 297 del 1982, nella parte in cui non prevede il diritto alla «neutralizzazione» dei periodi di contribuzione per disoccupazione e per integrazione salariale anche oltre i limiti del quinquennio, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 aprile 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Carmelinda MORANO, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 aprile 2017.