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Sentenza 42 del 22 febbraio 1999
ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), promosso con ordinanza emessa il 28 maggio 1997 dal Pretore di Parma sul ricorso proposto da Mezzi Gaia contro l’INPS iscritta al n. 531 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Visto l’atto di costituzione dell’INPS;
udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 1999 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;
udito l’avvocato Carlo De Angelis per l’INPS.
Ritenuto in fatto
1.— Nel corso di una controversia in materia previdenziale promossa per il riconoscimento del diritto alla quota di pensione di riversibilità per una figlia convivente, studentessa universitaria, il Pretore di Parma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), in riferimento agli artt. 3, 4, 34, 35, 36 e 38 della Costituzione.
Osserva il giudice a quo che la figlia della ricorrente, durante il periodo quadriennale nel quale era regolarmente iscritta al corso di laurea in lettere e filosofia, aveva svolto per un giorno alla settimana un’attività lavorativa, percependo un reddito netto di circa duecentocinquantamila lire mensili. In conseguenza della titolarità di tale reddito l’INPS non aveva erogato la quota del 20 per cento della pensione di riversibilità spettante alla giovane in conseguenza della morte del padre, poichè la norma impugnata pone come condizioni per il godimento di tale prestazione previdenziale l’essere a carico del genitore al momento del decesso e la mancata prestazione di un lavoro retribuito.
Ad avviso del rimettente la norma impugnata non consente alcuna interpretazione diversa da quella che porterebbe, nel caso specifico, al rigetto del ricorso; tale interpretazione, però, confligge con gli evocati parametri costituzionali. La rigidità della previsione, infatti, non consentendo alcun margine di prova in ordine all’effettiva consistenza del reddito di cui si dispone, viola il principio di eguaglianza, perchè discrimina i possessori di reddito da lavoro rispetto ai titolari di redditi diversi (per esempio, da patrimonio), ostacola il diritto agli studi, lede gli artt. 4 e 35 Cost., perchè finisce col negare agli studenti il diritto al lavoro, e viola anche l’art. 38 Cost., perchè non tutela adeguatamente i superstiti che non sono in grado di procurarsi i mezzi necessari per mantenersi.
Il Pretore, quindi, ha chiesto che venga dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma in esame, quanto meno nella parte in cui non consente di dimostrare che la percezione del reddito non ostacola, in realtà, l’effettivo adempimento degli obblighi di studio.
2.— Nel giudizio davanti a questa Corte si é costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale, chiedendo che la questione venga dichiarata non fondata.
L’ente previdenziale ha osservato, a sostegno delle proprie conclusioni, che una questione identica a quella odierna é già stata dichiarata inammissibile con la sentenza n. 926 del 1988; in quell’occasione si disse che la determinazione dei limiti di reddito idonei a far venire meno lo stato di bisogno deve essere stabilita dal legislatore, e una simile motivazione può adattarsi perfettamente anche nella sede attuale.
In prossimità dell’udienza l’INPS ha depositato una memoria modificando, almeno in parte, le conclusioni in precedenza rassegnate.
Osserva l’ente previdenziale che la norma impugnata richiede, per il riconoscimento del diritto alla quota di pensione di riversibilità, la sussistenza di due requisiti, ossia quello della vivenza a carico e quello della mancanza di un lavoro retribuito. Nel caso specifico é necessario interpretare il senso dell’espressione "lavoro retribuito" utilizzata dal legislatore, e ciò anche alla luce della sentenza n. 406 del 1994 di questa Corte, secondo la quale il diritto alla pensione si collega all’impossibilità per l’orfano di procurarsi un reddito in conseguenza della propria dedizione agli studi. E’ evidente, quindi, che il riferimento al lavoro retribuito non può che rivolgersi ad una normale prestazione stabile e duratura, dovendosi invece ritenere esclusa un’attività lavorativa saltuaria e precaria, che non pregiudica il compimento degli studi.
Ne consegue che la norma impugnata, ove interpretata in tal modo, si sottrae alle lamentate censure di illegittimità costituzionale.
Considerato in diritto
1.— Il Pretore di Parma dubita che l’art. 22, terzo comma, della legge 21 luglio 1965, n. 903 (che ha modificato l’art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, in precedenza già modificato dall’art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218), nel prevedere per i figli infraventiseienni iscritti all’università il diritto alla quota di pensione di riversibilità del genitore defunto subordinatamente alla mancanza di una lavoro retribuito (oltre al requisito della vivenza a carico), sia in contrasto con gli artt. 3, 4, 34, 35, 36 e 38 della Costituzione, e ciò in quanto sarebbero violati:
1) i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, perchè si discriminano i possessori di reddito da lavoro rispetto ai titolari di redditi diversi (art. 3 Cost.);
2) il diritto agli studi (art. 34 Cost.);
3) il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.);
4) gli artt. 36 e 38 Cost., perchè non vengono tutelati adeguatamente i superstiti che non sono in grado di procurarsi i mezzi necessari per vivere, ed ai genitori non viene consentito di provvedere al mantenimento dei propri figli anche dopo la morte.
2.— La questione non é fondata, seguendo l’interpretazione che verrà ora precisata.
La norma sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale, nel fissare i requisiti per il godimento della quota di pensione di riversibilità (che spetta ai figli inabili di qualunque età) per gli altri orfani dediti agli studi, stabilisce che il relativo diritto, normalmente destinato a venir meno con il raggiungimento della maggiore età, si può prolungare fino al ventunesimo o ventiseiesimo anno del figlio in caso di frequenza, rispettivamente, di una scuola media professionale o dell’università. Ma tale prolungamento é soggetto a due condizioni: l’essere a carico del genitore al momento del decesso di questi e la mancata prestazione di un "lavoro retribuito". La doglianza del giudice rimettente si appunta su quest’ultimo requisito, prospettandosi l’illegittimità costituzionale dell’automatica esclusione del diritto anche in presenza di un reddito di lavoro in ipotesi assai modesto.
3.— Questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni su questioni che, pur non del tutto coincidenti, riguardavano i rapporti tra diritto alla quota di pensione di riversibilità e titolarità di redditi da parte degli orfani.
Già con la sentenza n. 145 del 1987, relativa ai figli maggiorenni inabili al lavoro ed al particolare regime dei dipendenti ENASARCO, si osservava l’intrinseca irrazionalità derivante dalla "inesorabile" esclusione della pensione di riversibilità per la mera titolarità, da parte dell’orfano, di un reddito anche "nummo uno", poichè la generalizzazione di tale inevitabile collegamento finiva col rendere inoperante la funzione stessa della pensione di riversibilità, che é quella di dare garanzia di continuità nel sostentamento dei figli dopo la morte del genitore che era onerato del loro mantenimento. "Una volta esclusa (soggiungeva quella pronuncia di illegittimità costituzionale) l’operatività di una condizione negativa così in antitesi con i più elementari canoni dell’equità e della logica, l’eventuale indicazione di un particolare limite reddituale non rientra nei poteri di questa Corte", ma spetta agli interpreti o al legislatore.
Riallacciandosi a quest’ultimo rilievo, la successiva sentenza n. 926 del 1988 – nella quale era in esame la stessa norma oggi impugnata – pur di fronte all’esigenza di doverosa tutela della situazione degli orfani studenti, perveniva ad una declaratoria di inammissibilità, osservando che "la determinazione, in via generale, dei limiti di reddito derivanti dal lavoro che possono essere ritenuti tali da far venire meno lo stato di bisogno spetta al legislatore, così come l’effettuazione delle possibili scelte"; e lo stesso dicasi per "la determinazione dei limiti di cumulabilità del trattamento pensionistico, specie di riversibilità, con i redditi di lavoro o assimilati".
Chiamata a decidere, dopo cinque anni, un’analoga questione sul regime pensionistico dell’ENASARCO, la Corte, riportandosi alle citate pronunce e rimeditando sugli effetti della rigidità della norma e dell’inerzia del legislatore, con la successiva sentenza n. 274 del 1993, ha evidenziato il parallelismo esistente tra i figli maggiorenni inabili ed i figli maggiorenni che, a causa della propria dedizione agli studi universitari, sono impossibilitati a procurarsi un reddito proprio. Per questa considerazione e per la riconosciuta necessità di un’adeguata tutela degli orfani nel loro diritto allo studio, la Corte é pervenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e del settimo comma, n. 3, dell’art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12 "nella parte in cui prevede la perdita del diritto alla pensione di riversibilità per i figli maggiorenni infraventiseienni che frequentino scuole o università, quando a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio, anzichè prevedere che dalla pensione di riversibilità sia decurtata la misura di tale reddito proprio".
4.— Rispetto alle predette sentenze, la questione oggi in esame si pone in linea di continuità, poichè denuncia – per il regime generale dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti – un problema simile a quello a suo tempo affrontato.
Ritiene tuttavia questa Corte che i precedenti sopra richiamati non siano in grado di offrire, pur nella loro fondamentale importanza (per la ratio da cui sono animati e per le prospettate soluzioni), una risposta del tutto appagante in ordine ai principi costituzionali invocati dall’ordinanza di rimessione.
Nella stessa ottica, la difesa dell’Istituto costituito, traendo spunto dai rilievi contenuti nella sentenza n. 406 del 1994 di questa Corte, premesso che il diritto dei predetti studenti ad una quota di pensione si collega essenzialmente all’impossibilità per gli orfani a carico di procurarsi un reddito in conseguenza della propria dedizione agli studi, osserva che il riferimento alla prestazione di un indistinto "lavoro retribuito" – come motivo di esclusione della quota di pensione – non può riguardare attività lavorative precarie, saltuarie e con minimo reddito, ma solo le normali prestazioni durature e con adeguata retribuzione.
Anche sulla base di tali deduzioni, si ritiene di dover fare propria una interpretazione della norma in grado di dare una soluzione maggiormente equilibrata rispetto agli interessi in gioco.
5.— In realtà la questione sollevata dal giudice a quo muove dal presupposto erroneo che l’espressione "lavoro retribuito" si riferisca ad ogni prestazione di lavoro ed a retribuzioni di qualsiasi misura. Nella società odierna, com’é noto, nella quale i giovani studenti sono spinti dalle più diverse motivazioni a cercare di accostarsi al mondo del lavoro fin dagli anni dell’università, non mancano situazioni, come quella prospettata dal giudice rimettente, nelle quali viene svolta un’attività di modesto rilievo e di esigua remunerazione.
Pertanto, qualora si versi in una situazione del genere (che dovrà essere di volta in volta valutata in concreto), la percezione di un piccolo reddito per attività lavorative, pur venendo a migliorare la situazione economica dell’orfano, non gli fa perdere la sua prevalente qualifica di studente; sicchè la totale eliminazione o anche la semplice decurtazione della quota di pensione di riversibilità si risolverebbe in una sostanziale lesione del diritto allo studio con deteriore trattamento dello studente, in contrasto coi principi di cui agli artt. 3, 4, 34 e 35 della Costituzione.
Così interpretata, la norma é immune dalle lamentate censure.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 34, 35, 36 e 38 della Costituzione, dal Pretore di Parma con l’ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 1999.
Presidente Renato GRANATA
Redattore Fernando SANTOSUOSSO
Depositata in cancelleria il 25 febbraio 1999.
Sentenza della Corte Costituzionale 6 del 18 gennaio 1999
ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Dott. Renato GRANATA Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI Giudice
- Prof. Francesco GUIZZI "
- Prof. Cesare MIRABELLI "
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO "
- Avv. Massimo VARI "
- Dott. Cesare RUPERTO "
- Dott. Riccardo CHIEPPA "
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY "
- Prof. Valerio ONIDA "
- Prof. Carlo MEZZANOTTE "
- Avv. Fernanda CONTRI "
- Prof. Guido NEPPI MODONA "
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Prof. Annibale MARINI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, commi 4 e 9, 6, comma 1, e 7, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), promosso con ordinanza emessa il 3 febbraio 1996 dal Pretore di Lecce nel procedimento civile vertente tra Cotardo Tiziana ed altre e la ditta LUEL ed altre, iscritta al n. 1203 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 14 ottobre 1998 il Giudice relatore Cesare Ruperto.
Ritenuto in fatto
1.1.- Il Pretore di Lecce - nel corso di un giudizio in cui i lavoratori licenziati per cessazione di attività aziendale avevano richiesto che venisse accertato il loro diritto ad essere collocati in mobilità - sollevò, con ordinanza del 18 maggio 1994, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che l'indennità in argomento possa spettare anche a soggetti non iscritti nelle liste di mobilità che posseggano i relativi requisiti.
Con sentenza n. 413 del 1995, questa Corte dichiarò non fondata la questione, osservando che il diritto all'indennità costituisce una tra le molteplici conseguenze dell'iscrizione nelle liste, e aggiungendo che non poteva esaminare, "in quanto eccedente rispetto al "thema decidendum" devoluto alla Corte stessa, "la conformità, o meno, a Costituzione della disciplina (non già del presupposto dell'indennità di mobilità ma) della stessa iscrizione nelle liste suddette (art. 4)".
1.2.- Lo stesso giudice, con ordinanza emessa il 3 febbraio 1996 nel corso del medesimo processo - dopo aver ricordato che il datore di lavoro ha verbalmente proceduto al licenziamento di tutti i dipendenti per cessazione di attività - ha sollevato, in relazione agli artt. 3 e 38 Cost., questione di legittimità costituzionale, dell'art. 4, commi 4 e 9, in combinato disposto con gli artt. 6, comma 1, e 7, comma 1, della già citata legge n. 223 del 1991, nella parte in cui riserva soltanto al datore di lavoro e non anche, in alternativa, ai lavoratori licenziati per cessazione di attività "l'iniziativa o il compimento degli atti indispensabili" per l'iscrizione nelle liste di mobilità da compilarsi a cura dell'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione.
Osserva il rimettente come, in caso di cessazione dell'attività aziendale, la procedura di mobilità trovi applicazione soltanto per la parte compatibile, in particolare quella che tende ad assicurare ai lavoratori la tutela previdenziale e sociale. In tale ipotesi i motivi della decisione imprenditoriale di cessare l'attività risultano insindacabili da parte del giudice, né sarebbe possibile l'effettiva reintegrazione del lavoratore ove fosse accertata l'invalidità o l'inefficacia del recesso. L'inesistenza o il mancato perfezionamento degli adempimenti, sia pure soltanto formali, cui il datore di lavoro è tenuto nella procedura in questione, determina la mancata iscrizione dei lavoratori nelle liste e, quindi, l'impossibilità di acquisire quello status che è condizione, tra l'altro, della percezione dell'indennità, anche se gli stessi siano in possesso dei requisiti di anzianità aziendale previsti dall'art. 16, comma 1, della legge.
D'altra parte - aggiunge il rimettente - non sarebbe possibile alcuna indagine circa la legittimità del comportamento del soggetto pubblico, al fine di richiedere al giudice ordinario l'accertamento incidentale dell'illegittimità della mancata iscrizione, atteso che quest'ultima è stata rifiutata per il difetto del presupposto, cioè per le mancate comunicazioni facenti carico al soggetto privato.
Ma - sempre secondo il rimettente - non sembra ragionevole condizionare l'iscrizione, produttiva di effetti previdenziali e sociali, alla sola iniziativa del datore di lavoro, estraneo ai rapporti che dall'iscrizione stessa conseguono e, in ipotesi, indifferente ai riflessi economici negativi della propria condotta. E ciò anche alla stregua dei princìpi generali, secondo cui un diritto non può essere condizionato dal comportamento di altro soggetto, che non sia giustificato da seri e apprezzabili motivi ma sia invece solo conseguente a una scelta arbitraria.
La prospettazione, secondo quanto precisa il Pretore di Lecce, non riguarda più dunque la mancata corresponsione dell'indennità di mobilità ai non iscritti alle liste che pure ne avrebbero avuto diritto, bensì ("prendendo atto dei rilievi mossi dalla Corte costituzionale") l'irragionevolezza e il contrasto con il principio di eguaglianza, correlato con l'art. 38 Cost., espresso dall'impossibilità di essere iscritti nelle liste di mobilità per lavoratori, i quali pur posseggono i relativi requisiti.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità per irrilevanza, in quanto le parti ricorrenti nel giudizio a quo si sarebbero limitate a richiedere la condanna al pagamento dell'indennità di mobilità. Nel merito, l'Autorità intervenuta rileva come dal tenore dell'impugnato art. 4 non sia ricavabile alcuno dei vizi di legittimità costituzionale prospettati dal rimettente.
Considerato in diritto
1.- Il Pretore di Lecce dubita della legittimità costituzionale dell'art. 4, commi 4 e 9, in combinato disposto con gli artt. 6, comma 1, e 7, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223. A parere del rimettente, la denunciata normativa - che descrive gli adempimenti imposti al datore di lavoro per l'iscrizione dei dipendenti nelle liste di mobilità, subordinando ad essa l'erogazione della relativa indennità - contrasta con gli artt. 3 e 38 Cost., nella parte in cui condiziona la procedura d'iscrizione esclusivamente al comportamento del datore di lavoro senza prevedere, in alternativa, che "l'iniziativa o il compimento" degli atti necessari - nell'inerzia del soggetto tenuto ad attivarsi - spetti ai lavoratori interessati, in caso di licenziamento collettivo per cessazione dell'attività.
Secondo il rimettente, è irragionevole subordinare l'iscrizione (e la prestazione conseguente) al comportamento (in ipotesi arbitrario) di un terzo estraneo al rapporto previdenziale e sostanzialmente indifferente agli effetti negativi dell'omessa iscrizione. Effetti, che verrebbero a prodursi a carico dei lavoratori in conseguenza della condotta omissiva del loro datore di lavoro, con disparità di trattamento rispetto ai casi in cui quest'ultimo abbia invece provveduto al compimento di una serie di atti formali, e con violazione anche del diritto protetto dall'art. 38 Cost.
2.- La questione non è fondata, nei sensi di cui appresso.
2.1.- Giova rammentare che nel corso del medesimo giudizio a quo il Pretore di Lecce ebbe già a sollevare questione di legittimità costituzionale - parimenti in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost. - dell'art. 7, comma 1, della stessa legge n. 223 del 1991, con riguardo alla mancata corresponsione dell'indennità di mobilità ai lavoratori, che pure ne avrebbero avuto diritto, non iscritti nelle liste a causa della condotta omissiva del datore di lavoro.
Con sentenza n. 413 del 1995 questa Corte dichiarò non fondata tale questione, osservando come il diritto alla percezione dell'indennità non rappresenti che una tra le molteplici conseguenze di quello status che i lavoratori acquisiscono con l'iscrizione nelle liste di mobilità. In tale momento si radica, difatti, "un complesso di rapporti interconnessi, dei quali quello avente ad oggetto l'erogazione dell'indennità di mobilità costituisce il principale ma non l'unico", che non è quindi possibile enucleare prescindendo dall'iscrizione nelle liste stesse.
L'odierna prospettazione concerne appunto quest'ultimo aspetto, nella centralità così posta in luce da quella sentenza rispetto al complessivo impianto della denunciata legge. Le affermazioni allora fatte vanno dunque assunte a premessa del presente scrutinio di costituzionalità, particolarmente là dove si rileva l'inadeguatezza della tutela risarcitoria, segnatamente nel caso di cessazione dell'attività aziendale, e si sottolinea la dimensione procedimentale in cui si colloca l'iscrizione nelle liste.
2.2.- Tanto precisato, osserva la Corte che, per effetto del rinvio operato dall'art. 24, comma 2, della legge n. 223 del 1991, le norme in materia di mobilità si applicano anche in caso di licenziamento collettivo per cessazione di attività, avuto riguardo al solo requisito dimensionale delle imprese (prescindendo, dunque, dall'avvenuta ammissione delle stesse al trattamento straordinario d'integrazione salariale). Come risulta evidente dal testo normativo, l'estensione alle imprese che "intendono cessare l'attività" è frutto di un'assimilazione logica alle ipotesi di licenziamento collettivo per "riduzione o trasformazione di attività o di lavoro", contemplate nel precedente comma. Anche la cessazione dell'attività, in altri termini, si vuole inserita in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilità tende a ridurre le conseguenze della crisi o della ristrutturazione dell'impresa sull'occupazione.
Cotale forma di tutela si comprende e si giustifica in quanto la messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori. Ma essa assurge ad espressione di un principio generale, che non può non valere anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell'impresa operata al di fuori d'ogni procedura: come appunto messo in risalto dalla succitata sentenza, la sola sanzione dell'inefficacia del recesso ex art. 5, comma 3 (con la tutela giurisdizionale che ne consegue), non può considerarsi appagante ai fini della tutela dei lavoratori.
2.3.- Per altro verso è evidente che la comunicazione di avvio della procedura, così come regolata dai commi 1 e 2 dell'art. 4, e la trasmissione degli elenchi di cui al comma 9 - sanzionata, quest'ultima, con l'inefficacia se eseguita senza l'osservanza dei modi e termini stabiliti - costituiscono atti non surrogabili dall'intervento dei lavoratori. La presenza di questi ultimi nella complessa procedura - quale risulta dalle indicate norme, coinvolgente una pluralità di soggetti, privati e pubblici - non può che esprimersi attraverso le organizzazioni sindacali, portatrici della dimensione collettiva degl'interessi in gioco e di una visione d'insieme del mercato del lavoro (cfr.: sentenza n. 268 del 1994).
Tuttavia va osservato che il legislatore, successivamente alla legge n. 223 del 1991, ha previsto un'ipotesi d'iscrizione nelle liste, originata esclusivamente dall'iniziativa del lavoratore interessato. Infatti l'art. 4, comma 1, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, in legge 19 luglio 1993, n. 236, consente ai lavoratori dipendenti da aziende che non rientrino nella disciplina della mobilità, licenziati "per giustificato motivo oggettivo connesso a riduzione, trasformazione o cessazione di attività o di lavoro", di richiedere l'iscrizione alla sezione circoscrizionale per l'impiego entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento.
La norma, in quanto dettata anche per i licenziamenti individuali, conferisce a tale sezione il potere di verificare la corrispondenza dei motivi del recesso a quelli dichiarati dal datore di lavoro, e proprio in relazione al difetto dei requisiti di legittimità del licenziamento esclude il diritto all'indennità di mobilità. Ma essa - siccome espressiva, per le considerazioni sopra svolte, di un ampliamento della tutela dei lavoratori - va letta nel senso, costituzionalmente adeguato, di consentire a quanti siano rimasti privi del posto di lavoro in conseguenza del mero comportamento datoriale che ha posto fine all'attività, di inoltrare la richiesta d'iscrizione nelle liste; restando poi a carico dell'ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione l'ulteriore controllo circa l'esistenza degli eventuali presupposti oggettivi e soggettivi necessari per la corresponsione dell'indennità. Il denunciato art.6 della legge n. 223 del 1991 demanda infatti a tale ufficio l'attività di raccolta delle informazioni concernenti la specifica professionalità dei lavoratori, a séguito di un'analisi tecnica compiuta dall'agenzia per l'impiego, al fine di un corretto inserimento nella lista, tale da consentire un'appropriata ricollocazione nel mercato del lavoro.
Poiché la natura collettiva del licenziamento è insita nel fatto stesso della cessazione totale e definitiva dell'attività aziendale, appare del tutto logico che l'ufficio regionale - non dovendo verificare il carattere del licenziamento - debba estendere la sua istruttoria al riscontro dei presupposti oggettivi e dei requisiti soggettivi che dànno titolo alla percezione dell'indennità allorché, come nel caso di cui al giudizio a quo, sia mancata la disponibilità di questi dati quale esito della procedura tipica, attivata e condotta dall'imprenditore (il quale, oltretutto, non ha neppure formalizzato i licenziamenti).
2.4.- L'estensione - imposta dalla logica, prima ancora che costituzionalmente necessaria - della possibilità offerta dall'art. 4 del decreto-legge n. 148 del 1993 a tutte le ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività, consente così di acquisire a posteriori gli elementi su cui si fonda il diritto all'indennità, stante che, nel caso di accertamento positivo, la commissione per l'impiego, in ragione del carattere tecnico e quindi vincolato del controllo che le è demandato - come esattamente sottolinea il giudice a quo, e come risulta confermato dalla stessa prassi amministrativa - è tenuta all'approvazione della lista.
D'altra parte, codesto meccanismo, introdotto come misura temporanea, è stato prorogato prima dall'art. 4, comma 17, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, in legge 28 novembre 1996, n. 608; poi fino al 31 dicembre 1998 dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 20 gennaio 1998, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 20 marzo 1998, n. 52; e da ultimo "fino alla riforma degli ammortizzatori sociali", con la modifica apportata a tale norma dall'art. 81, comma 2, lettera b), della legge 23 dicembre 1998,n. 448. Col venir meno del suo carattere transitorio, il meccanismo è dunque da considerarsi ormai un consolidato complemento delle disposizioni di cui agli artt. 4, 6 e 7 della legge n. 223 del 1991, là dove assicura ai lavoratori una via di accesso diretto alle liste e, pur nella imperfezione del generale ordito normativo, rende possibile il conseguimento dello status derivante dall'iscrizione, con le connesse agevolazioni del collocamento nonché, se ne sussistano i requisiti, della percezione di un'indennità.
2.5.- Accogliendo, fra le possibili interpretazioni del sistema normativo in esame, quella adeguatrice alla Costituzione sopra delineata, vengono meno i dubbi di costituzionalità prospettati dal Pretore di Lecce senza prendere in considerazione la succitata norma della legge n. 236 del 1993, che del sistema stesso fa parte integrante.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, commi 4 e 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), in combinato disposto con gli artt. 6, comma 1, e 7, comma 1, della legge stessa, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dal Pretore di Lecce, con l'ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 gennaio 1999.
Presidente Renato GRANATA
Redattore Cesare RUPERTO
Depositata in cancelleria il 21 gennaio 1999