Home Pensioni Modalità particolari di accesso alla pensione Salvaguardia Quarta salvaguardia - 9.000 Norme Circolari Inps CI 1982 Circolare 139 del 21 giugno 1982
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Circolare 139 del 21 giugno 1982
OGGETTO: Informativa sull'orientamento della giurisprudenza
circa le questioni piu' ricorrenti in materia di
indennita' di malattia e di maternita'.
In seguito all'entrata in vigore del D.L. 30 dicembre
1979, n. 663 (1) (convertito con modificazioni nella legge 29
febbraio 1980, n. 33), che ha trasferito all'INPS la
competenza ad erogare le indennita' giornaliere di malattia e
di maternita', sono state impartite a tutte le Sedi
provinciali le prime istruzioni in materia con la circolare
del 22 gennaio 1980, n. 614 EAD - n. 205 RCV - n. 134359
AGO/10 (2).
Sono seguite circolari e messaggi vari, che si rende ora
opportuno integrare con una diffusa informativa sulle
questioni giuridiche piu' ricorrenti in materia e
l'indicazione della piu' notevole giurisprudenza al riguardo
(in questa sede ci si occupera' delle indennita' di malattia e
di maternita' dovute ai soli lavoratori gia' assistiti
dall'INAM).
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PREMESSA GENERALE SULLE INDENNITA' DI MALATTIA E DI
MATERNITA'.
Lo scopo principale a cui tende l'assicurazione di
malattia e di maternita' e' quello di apprestare
all'assicurato infermo e alla lavoratrice gestante e puerpera
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dei mezzi o servizi (prestazioni sanitarie) che consentano
loro il piu' rapido e soddisfacente possibile ristabilimento
delle condizioni fisiche e alla seconda anche il migliore
possibile espletamento del parto. Ma tanto la malattia - ove,
almeno, renda incapaci al lavoro - quanto la gravidanza e il
puerperio sono eventi che provocano anche delle necessita'
finanziarie, giacche' con l'allontanamento dal lavoro
comportano anche il venir meno della retribuzione: donde,
l'importanza delle prestazioni economiche, le quali,
consistendo nell'erogazione di somme di denaro, sono destinate
a sopperire, quanto meno per una parte, alla perdita del
salario. Appare chiaro, quindi, che alle indennita' di
malattia e di maternita' e' da attribuire natura giuridica di
prestazione previdenziale compensativa della perdita del
salario: ed e' appunto questa la tesi che ormai da tempo si e'
affermata (3).
Qualche autore, pero', esclude questa natura riparatrice o
risarcitoria e preferisce parlare, invece, di natura
alimentare (4).
Come risultera' meglio dall'esame della disciplina
positiva, la tesi che appare piu' corretta e' la prima (natura
risarcitoria), anche se si puo' osservare che, in fondo, non
c'e' contraddizione fra le due, giacche' la destinazione delle
indennita' a fungere da surrogato del salario non toglie che
la funzione ultima sia di fornire agli assistiti quel minimo
di denaro che occorre per il soddisfacimento dei bisogni
primari alimentari.
INDENNITA' DI MALATTIA.
1. Fonti - Nell'iniziare la trattazione particolareggiata
dell'indennita' di malattia, conviene dare anzitutto un quadro
panoramico delle fonti normative che la disciplinano.
Dato che il D.L. 30 dicembre 1979, n. 663 (convertito
nella L. 29 febbraio 1980, n. 33), si e' limitato a trasferire
all'INPS la competenza ad erogare le indennita' in questione
e, salvo poche innovazioni espresse, ha lasciato ferma la
disciplina preesistente, preannunciando una legge futura al
riguardo (v. l'ultimo comma dell'art. 1), bisogna far capo
tuttora alle fonti che disciplinavano l'indennita' di malattia
erogata dall'INAM. La norma fondamentale e' l'art. 6 L. 11
gennaio 1943, n. 138, il quale al 1 comma si limita a
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prevedere, fra le varie prestazioni a carico dell'Ente, "la
concessione di una indennita' di malattia"; al 2 comma
stabilisce che "l'indennita' non e' dovuta quando il
trattamento economico di malattia e' corrisposto per legge o
per contratto collettivo dal datore di lavoro o da altri enti
in misura pari o superiore" a quella dell'indennita'. e che
"le prestazioni corrisposte da terzi in misura inferiore ....
saranno integrate dall'ente sino a concorrenza"; e al 4 comma
stabilisce che alcune delle prestazioni precedentemente
enumerate, fra cui appunto l'indennita' di malattia, "saranno
concesse nei limiti, nella misura e secondo le modalita' che
verranno determinate nazionalmente dalle associazioni
sindacali a mezzo dei contratti collettivi o da deliberazione
dei loro competenti organi, ovvero dal decreto di cui al
secondo comma dell'art. 4" (cioe' da un decreto del Capo dello
Stato promosso dal Ministro del Lavoro, d'intesa con quello
delle Finanze). L'art. 6 L. n. 138 del 1943, come appare
evidente, enuncia un principio generale e poi opera, per la
sua attuazione, un rinvio formale ad altre fonti (c. d. norma
"in bianco"). Non essendo mai intervenuto sul previsto decreto
del Capo dello Stato, una rilevanza particolare assume il
rinvio ai contratti collettivi nazionali di lavoro. Al
riguardo, e' da avvertire che, non essendo stato ancora
attuato il sistema delle rappresentanze unitarie previsto
dall'art. 39 Cost. e non avendo, percio', i nuovi contratti
collettivi efficacia vincolante nei riguardi dei non iscritti
alle associazioni sindacali, il rinvio dell'art. cit. e' da
intendere operante nei riguardi dei contratti collettivi
dell'epoca corporativa, sopravvissuti alla scomparsa
dell'ordinamento sindacale pubblicistico per l'ultrattivita'
stabilita dall'art. 43 D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 369
(5). Altra avvertenza notevole: fra tali contratti una
rilevanza particolare assume quello del 3 gennaio 1939, che,
pur dettando testualmente la disciplina del trattamento
mutualistico di malattia dei soli operai del settore
dell'industria, e' ormai estensibile a tutte le categorie di
lavoratori, giacche', essendo la disciplina di tale settore la
piu' minuziosa ed esauriente, ad essa invia, esplicitamente o
no, la normativa riguardante gli altri settori (6).
L'ambito di operativita', nella nostra materia, dei
contratti collettivi di lavoro tende, pero', a ridursi per
l'intervento del legislatore, che va estendendo la diciplina
legislativa diretta. Cosi', sono intervenuti, nel settore
dell'industria, il D. Lgs. Lgt. 19 aprile 1946, n. 213, e
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leggi varie in materia di integrazione salariale (L. 8 agosto
1972, n. 464; L. 20 maggio 1975, n. 164, ed altre); nel
settore dell'agricoltura, il D. Lgs. Lgt. 9 aprile 1946, n.
212, e la L. 8 agosto 1972, n. 457; nel settore del commercio,
credito, assicurazione e servizi tributari appaltati, il
D.L.C.P.S. 31 ottobre 1947, n. 1304; infine, vanno richiamati
i recenti provvedimenti legislativi in materia di riforma
sanitaria (L. 23 dicembre 1978, n. 833; D.L. 30 dicembre 1979,
n. 663, convertito con modificazioni nella L. 29 febbraio
1980, n. 33, e il cui art. 2, nella parte concernente la
certificazione di malattia, e' stato modificato dall'art. 5 L.
23 aprile 1981, n. 155; D.L. 30 aprile 1981, n. 168,
convertito con modificazioni nella L. 27 giugno 1981, n. 331).
2. Aventi diritto - Passando a trattare degli aventi diritto
all'indennita' di malattia, e' da fare, anzitutto,
un'avvertenza che, pur potendo sembrare ovvia, non e' pero'
inopportuna: cioe' che, trattandosi di un succedaneo del
salario, non vi hanno diritto i pensionati (che durante
l'infermita' continuano a percepire la pensione), ne' i
familiari a carico di lavoratori o pensionati (che, anche se
non affetti da malattia, non sono percettori di salario), ne'
quegli impiegati che sono retribuiti in misura fissa mensile
anche in caso di assenza per malattia (come gli impiegati
dell'industria; invece, l'indennita' spetta agli impiegati del
commercio), ne' i ministri di culto, per i quali non si puo'
parlare di rapporto di lavoro subordinato, con la percezione
di una regolare retribuzione. Tra gli agricoli non hanno
diritto all'indennita' di malattia i coloni che non siano
piccoli coloni e i mezzadri, i quali sono titolari di un
rapporto di lavoro di tipo associativo; inoltre, non vi hanno
diritto i lavoratori dei settori del credito, assicurazione e
servizi tributari appaltati; quelli del settore del commercio
con qualifica di impiegati dipendenti da proprietari di
stabili, piazzisti, viaggiatori e portieri; i pescatori della
piccola pesca; i lavoratori addetti ai servizi domestici
familiari e gli apprendisti di qualsiasi settore. Salve queste
eccezioni, si puo' dire, in generale, che hanno diritto
all'indennita' di malattia i lavoratori dipendenti da datori
di lavoro privati con qualifica di operai o anche di
impiegati, se pero', in quest'ultimo caso, non maturano il
diritto allo stipendio per le giornate di assenza dal lavoro a
causa di malattia.
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L'art. 4 L. 11 gennaio 1943, n. 138, testualmente prevede
l'iscrizione all'INAM (con diritto, quindi, anche
all'indennita' di malattia) non gia' per tutti i lavoratori
dipendenti da privati, ma solo per quelli rappresentati dalle
associazioni sindacali aderenti alle Confederazioni dei
lavoratori dell'industria, agricoltura, commercio, credito e
assicurazione, e per quelli rappresentati dalla Confederazione
dei professionsiti e degli artisti. Dapprima la Cassazione si
era limitata a stabilire che l'estensione della tutela
assicurativa dell'INAM ad altre categorie di lavoratori
richiede uno specifico intervento del legislatore (7);
sennonche', con ordinanza del 29 aprile 1976 ha ritenuto che,
stante la sua portata limitativa, l'art. 4 cit. potrebbe
essere in contrasto con gli artt. 3, 1 comma, e 38, 2 comma,
Cost., ed ha sollevato questione di costituzionalita' (8).
Analoga questione e' stata sollevata dal Pretore di Genova per
quanto riguarda i dipendenti dei sindacati, i quali, ai sensi
dell'art. 4 L. n. 138 del 1943, sarebbero esclusi
dall'assicurazione obbligatoria contro le malattie (9). Le
questioni sollevate, benche' nel frattempo sia intevenuta la
riforma sanitaria, erano sempre rilevanti, anche per i
rapporti pregressi. La Corte Costituzionale ha emesso nei
confronti di entrambe una sentenza di accoglimento (10): con
la conseguenza che il diritto all'assistenza di malattia e di
maternita' - senza eccezione, ovviamente, per le prestazioni
economiche - va riconosciuto a tutti i lavoratori dipendenti
da privati.
3. Insorgenza del diritto - Il diritto all'indennita' di
malattia puo' essere inteso in due sensi diversi: in quello di
posizione soggettiva attiva che consente al lavoratore di
pretendere l'indennita' per le malattie che eventualmente lo
colpiscano in futuro, e nel senso di possibilita' di
pretendere l'erogazione in concreto della prestazione per una
malattia che effettivamente lo ha colpito.
Inteso il diritto nel primo senso, la sua insorgenza si
verifica, in genere, per il solo fatto della instaurazione di
un rapporto di lavoro assoggettabile ad assicurazione
obbligatoria contro le malattia, senza bisogno che il datore
di lavoro provveda effettivamente alle formalita' necessarie
per l'assicurazione e che decorra un periodo minimo di
assicurazione o di contribuzione. E' il cosiddetto principio
dell'automatismo, consacrato nell'ultimo comma dell'art. 11 L.
11 gennaio 1943, n. 138. Va ravvisata un'eccezione per i
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lavoratori del settore agricolo, per i quali, in
considerazione dell'instabilita' e discontinuita' dei rapporti
di lavoro, che vengono instaurati generalmente con un
molteplicita' di datori di lavoro, il legislatore ha previsto
la formazione di appositi elenchi nominativi, nei quali i
lavoratori sono inseriti, dopo un periodo minimo di attivita'
lavorativa, in seguito ad un procedimento amministrativo piu'
o meno complesso (v. R.D. 24 settembre 1940, n. 1949); ed ha
collegato l'insorgenza del diritto ad assistenza di malattia
all'avvenuta iscrizione in tali elenchi o all'avvenuto
rilascio in via di urgenza, da parte del Servizio per i
Contributi Agricoli Unificati (S.C.A.U.), di un certificato
provvisorio comprovante il possesso dei requisiti per
l'iscrizione (D. Lgs. Lgt. 9 aprile 1946, n. 212, art. 4)
(11). La Corte Costituzionale, chiamata a stablire se sia
conforme alla Costituzione questa disciplina legislativa che
esclude per i lavoratori agricoli l'automatismo previsto per
quelli di altri settori, si e' pronunciata nel senso che non
vi sarebbe disparita' di trattamento fra gli uni e gli altri,
valendo anche per gli agricoli il principio dell'automatismo
delle prestazioni: anche per questi il diritto all'assistenza
sorgerebbe dalla sola situazione di prestatori di lavoro
subordinato; di particolare vi sarebbe unicamente che gli
elenchi nominativi assolverebbero una specifica funzione
probatoria (12). Sull'esattezza di questo ragionamento vi
sarebbe da discutere; comunque, quel che importa e' che la
decisione sia stata nel senso della conformita' della
disciplina legislativa in esame ai principi della Costituzione
(13).
Per quanto riguarda la decorrenza, ai fini del diritto
all'assistenza di malattia, dell'iscrizione negli elenchi,
alla questione sono state date in giurisprudenza varie
soluzioni: secondo una, il diritto decorre dalla dta di
pubblicazione dell'elenco nel quale il singolo lavoratore e'
iscritto (14); secondo un'altra, per l'acquisizione del
diritto e' anche necessaria la definitivita' dell'iscrizione
nell'elenco, nel senso che sia gia' decorso, dalla
pubblicazione, il termine previsto per ricorrere contro le sue
risultanze o che, ove un ricorso venga proposto, esso sia
stato deciso con provvedimento irrevocabile (15); ma la
soluzione che sembra essersi ormai affermata e' quella
adottata dalla Cassazione con una sentenza emessa gia' da
oltre un decennio, la quale fa decorrere il diritto
all'assistenza dalla data iniziale del periodo a cui si
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riferisce l'elenco di iscrizione (16). Ovviamente, resta fermo
che, nel caso del lavoratore che si faccia rilasciare il
certificato di urgenza, la decorrenza del diritto coincide con
la data del rilascio (17).
Quanto all'insorgenza del diritto del lavoratore
all'erogazione in concreto dell'indennita' per una malattia
che effettivamente lo ha colpito, e' sostenibile che la
titolarita' del rapporto di lavoro sia condizione necessaria
ma non sufficiente, nel senso che occorra anche l'effettiva
prestazione, sia pure per un tempo minimo, di attivita'
lavorativa retribuita. Infatti, l'ultimo comma dell'art. 11 L.
11 gennaio 1943, n. 138, nello stabilire il diritto del
lavoratore all'assistenza anche se, al verificarsi della
malattia, il datore di lavoro non abbia ottemperato
all'obbligo di fornire all'Istituto le notizie necessarie per
l'iscrizione dei propri dipendenti e per l'accertamento dei
contributi o non sia in regola con il versamento dei
contributi maturati, presuppone che un qualche obbligo
contributivo sia gia' sorto a carico del datore di lavoro, il
che e' impossibile senza un previo svolgimento di attivita'
lavorativa.
Come poi vedremo fra poco, il diritto all'assistenza e'
conservato eccezionalmente al lavoratore che, alla data di
lavoro da non oltre un certo periodo massimo di tempo: ma
questa e' un'eccezione la quale presuppone la regola nel senso
della spettanza della prestazione in favore dei soli
assicurati che vengano colpiti da malattia mentre si trovano
in costanza di attivita' lavorativa retribuita. S'intende che
queste considerazioni non riguardano i lavoratori agricoli,
per i quali il diritto alla prestazione sussiste anche in caso
di malattia insorta immediatamente dopo l'inizio del periodo
di validita' dell'elenco nel quale sono iscritti, a
prescindere dall'effettivo svolgimento di attivita'
lavorativa: tanto piu' che per almeno 51 giornate un'attivita'
lavorativa e' stata svolta per poter conseguire l'iscrizione.
4. Condizioni soggettive per l'acquisto del diritto:
certificazione della malattia. - Il lavoratore ammalatosi, per
poter acquisire il diritto all'indennita', deve informare
l'Istituto dell'insorgenza della malattia. Benche' ci sia
molta confusione circa la natura di questo "dovere", che
solitamente viene qualificato come "obbligo", non ci dovrebbe
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essere dubbio che esso consiste propriamente in un "onere",
trattando di adempimento che il lavoratore non e' tenuto a
curare comunque, ma deve curare se vuol conseguire un
risultato a lui favorevole: la corresponsione dell'indennita'
di malattia.
La L. 11 gennaio 1943, n. 138, non prevede questo
adempimento, ma l'esistenza dell'onere a carico del lavoratore
si e' sempre data per pacifica in base alle norme del codice
civile in materia di contratto di assicurazione. E cio', in
quanto, per il rinvio operato dall'art. 1886, si rende
applicabile alle assicurazioni sociali in genere, e a quella
di malattia in particolare, l'art. 1913 che impone
all'assicurato di "dare avviso del sinistro all'assicuratore
...entro tre giorni da quello in cui il sinistro si e'
verificato....". Come bene ha osservato la Cassazione, la
"ratio" di questo onere, che anche'essa pero' denomina
obbligo, "risiede nella esigenza che l'assicuratore sia posto
in grado di accertare tempestivamente la causa del sinistro e
l'entita' del danno prima che possano disperdersi eventuali
prove od indizi decisivi o, comunque, utili" (18): il che
implica la facolta' dell'assicuratore di svolgere gli
opportuni accertamenti sull'esistenza delle condizioni da cui
risulti il suo obbligo di corrispondere l'indennita'
assicurativa. In sede di attuazione della cosiddetta "piccola
riforma", il Consiglio di Amministrazione dell'INAM trasfuse
il principio circa l'onere di denuncia dell'infermita' negli
artt. 6 e 7 del "Regolamento delle prestazioni economiche",
stabilendo: che il medico di fiducia del lavoratore doveva
documentare l'insorgenza e la cessazione della malattia,
rispettivamente, con il certificato di inizio, valevole per la
prognosi in esso indicata, e con quello di guarigione; che
l'eventuale mancata guarigione entro il periodo prognosticato,
doveva risultare da certificati di continuazione della malttia
(art. 6); che tutti questi certificati dovevano essere
trasmessi all'INAM dallo stesso medico curante nel termine di
tre giorni, decorrenti, per il certificato di inizio, dalla
data della prima visita e, per gli altri, dalla data di
scadenza del certificato precedente (art. 7). Avendo questa
normativa complicato i rapporti tra l'INAM e i medici liberi
professionisti con esso convenzionati, in sede di trattative
con la classe sanitaria per il rinnovo della convenzione, con
una deliberazione consiliare del 23 giugno 1966, furono
introdotte delle innovazioni, stabilendosi che il medico si
doveva limitare a redigere i certificati ed a consegnarli al
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lavoratore, mentre doveva essere quest'ultimo a curarne la
trasmissione all'Istituto.
Per quanto riguarda le conseguenze dell'inosservanza
dell'onere di denuncia da parte dell'assicurato, l'art. 1915
cod. civ. stabilisce che "l'assicurato che dolosamente non
adempie l'obbligo dell'avviso ....perde il diritto
all'indennita'. Se l'assicurato omette colposamente di
adempiere tale obbligo l'assicuratore ha diritto di ridurre
l'indennita' in ragione del pregiudizio sofferto". Sulla
scorta di queste disposizioni, all'art. 7, 3 comma, "Reg.
prestaz. econ.", si stabili' che l'inosservanza dei termini
per l'inoltro dei certificati medici, se attribuibile
all'assicurato, comportava la perdita dell'indennita'
economica per il periodo di mancata o ritardata
certificazione: e cio', con riferimento sia al termine per
l'inoltro del certificato d'inizio della malattia, sia a
quelli per l'inoltro dei certificati di continuazione e di
guarigione. Con deliberazione adottata il 12 novembre 1971 dal
Consiglio di amministrazione dell'INAM, essendo sorti dei
dubbi sulla legittimita' del 3 comma dell'art. 7 nella sua
formulazione originaria, se ne volle circoscrivere la portata,
limitandosi l'esclusione del diritto all'indennita' ai soli
casi di omesso inoltro in termini del certificato di inizio
della malattia.
Piu' o meno bene si ando' avanti cosi' fino al 13 giugno
1980, quando la Corte di Cassazione, a sezioni unite, emise
ben quattordici sentenze in cui stabili' che, in via di
principio, l'INAM non potesse rifiutare l'erogazione
dell'indennita' neanche in caso di mancato inoltro, da parte
del lavoratore, del certificato di inizio della malattia.
Conseguentemente, l'Istituto venne nella determinazione di non
rifiutare piu' al lavoratore l'indennita' giornaliera neanche
in caso di omessa o ritardata denuncia di insorgenza
dell'infermita', sempreche' dalla documentazione in possesso
dell'istituto, da ulteriori accertamenti che esso potesse
svolgere oppure da prove fornite dall'interessato, risultasse
la dimostrazione dell'esistenza dell'infermita' invalidante.
Nel frattempo e' intervenuto in materia il legislatore, ma
il problema e' ancora ben lungi dall'aver trovato una
soddisfacente soluzione. Precisamente, e' avvenuto quanto
segue.
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Con D.L. 30 dicembre 1979, n. 663, si stabili' all'art. 2:
che il medico curante doveva redigere e rimettere in duplice
esemplare "alla struttura indicata dalla regione il
certificato di diagnosi, prognosi e di eventuale continuazione
della malattia", e cotemporaneamente doveva rilasciare "al
lavoratore un attestato, da consegnarsi entro tre giorni dal
rilascio al datore di lavoro, comprovante l'inzio e la durata
della malattia che comporti la temporanea inidoneita' al
lavoro"; che il datore di lavoro doveva "tenere a disposizione
e produrre all'Istituto nazionale della previdenza sociale, a
richiesta, gli attestati in suo possesso" e "comunicare i
necessari dati salariali entro il termine di quindici giorni,
nella ipotesi di pagamento diretto da parte dell'Istituto
medesimo"; infine, che la struttura indicata al primo comma
doveva "trasmettere all'Istituto nazionale della previdenza
sociale, entro quindici giorni, copia della certificazione ivi
prevista con le eventuali osservazioni" e poteva "disporre
controlli sullo stato di infermita' del lavoratore".
In sede di conversione, con l'art. 1 L. 29 febbraio 1980,
n. 33, si sostitui' l'art. 2 del D.L., stabilendosi: che il
medico curante doveva redigere in duplice copia e consegnare
"al lavoratore il certificato di diagnosi e l'attestazione
sull'inizio e la durata presunta della malttia"; che il
lavoratore era "tenuto, entro due giorni dal relativo
rilascio, a recapitare o a trasmettere, a mezzo raccomandata
con avviso di ricevimento, il certificato ...al datore di
lavoro" e "la attestazione ....all'Istituto nazionale della
previdenza sociale o alla struttura pubblica indicata dallo
stesso Istituto, d'intesa con la regione"; che "le eventuali
visite di controllo sullo stato diinfermita' del lavoratore,
ai sensi dell'art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, o su
richiesta dell'Istituto nazionale della previdenza sociale o
della struttura sanitaria pubblica da esso indicata", dovevano
essere eseguite "dai medici dei servizi sanitari indicati
dalle regioni"; che il datore di lavoro doveva "tenere a
disposizione e produrre, a richiesta, all'Istituto nazionale
della previdenza sociale i certificati in suo possesso"; e
che, nei casi di pagamento diretto dell'indennita' da parte
dell'Istituto, i certificati dovevano essere inviati al
medesimo, a cura del datore di lavoro, entro tre giorni dal
relativo ricevimento, unitamente ai dati salariali necessari
per il pagamento". quindi, mentre per il testo originario del
D.L. il certificato di malattia (indicante la diagnosi) doveva
essere inviato alla struttura sanitaria e il semplice
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attestato (privo di diagnosi) al datore di lavoro, per il
testo risultante dalla legge di conversione destinatario del
certificato era il datore di lavoro, mentre l'attestato doveva
essere trasmesso all'INPS o alla struttura sanitaria da esso
indicata. L'Istituto, che, nell'impartire le prime istruzioni
attuative degli artt. 74 e 76 L. 23 dicembre 1978, n. 833, si
era attenuto al testo originario dell'art. 2 D.L. n. 663/1979
(19), con un'interpretazione logica penso' di poter continuare
a indicare come destinatari del certificato e dell'attestato,
rispettivmaente, l'ente previdenziale e il datore di lavoro
(20). Ne sono derivate alcune vertenze giudiziarie promosse
contro l'INPS dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale
del Lazio da alcune aziende, le quali hanno anche chiesto
sospendersi l'esecuzione dei provvedimenti impugnati. Il
Tribunale adito ha accolto le richieste di sospensione con
ordinanze (21) confermate dal Consiglio di Stato in rigetto
delle impugnazioni proposte dall'INPS (22). L'Istituto,
pertanto, con messaggio n. 0175 trasmesso il 31 ottobre 1981
con il terminale elettronico, ha impartito istruzioni per
l'immediata osservanza del testo letterale dell'art. 2 D.L. n.
663/1979, come convertito nella legge n. 33/1980 (23).
Pochi mesi dopo, il problema e' stato risolto con un
ulteriore intervento legislativo: l'art. 15 L. 23 aprile 1981,
n. 155, ha modificato l'art. 2 D.L. cit., con effetto dal 15
marzo 1980 (data di entrata in vigore della L. n. 33/1980), in
senso conforme alla tesi sostenuta dall'INPS: destinatari,
quindi, del certificato o dell'attestato, rispettivamente,
l'INPS, o la struttura pubblica indicata dall'Istituto
medesimo d'intesa con la Regione, e il datore di lavoro;
conseguentemente, l'art. 15 L. n. 155 ha introdotto degli
adattamenti nell'ultimo comma dell'art. 2 D.L. n. 663, nel
senso che il datore di lavoro deve tenere a disposizione
dell'INPS; e produrgli a richiesta, "la documentazione" in suo
possesso (non piu' "i certificati"); e, nei casi di pagamento
diretto dell'indennita' da parte dell'istituto, gli deve
inviare, entro tre giorni dal ricevimento dell'attestazione di
malattia, i soli dati salariali. Da questa inversione dei
destinatari del certificato e dell'attestazione di malattia
rispetto alla previsione della norma precedentemente in
vigore, e' derivata la....reviviscenza delle istruzioni
impartite dall'INPS con circolare n. 625 EAD - n. 134362
AGO/84 del 22 aprile 1980 (24).
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Per completare l'esposizione delle vicende legislative in
materia, occorre richiamare l'art. 8 bis D.L. 30 aprile 1981,
n. 168 - introdotto dall'art. 1 della legge di conversione 27
giugno 1981, n. 331 -, il quale prevede che l'INPS e le Unita'
Sanitarie Locali disciplinino lo svolgimento dei "controlli
sullo stato di salute dei soggetti aventi titolo alle
prestazioni economiche di malattia e di maternita' attraverso
convenzioni da stipulare ... sulla base di appositi
schemi-tipo elaborati d'intesa tra l'INPS e le regioni ed
approvati con decreto del Ministro della sanita'".
In sintesi, la situazione normativa attuale e' questa: il
medico curante redige in duplice copia il certificato di
malattia (con la diagnosi) e l'attestazione (senza diagnosi) e
rilascia il tutto al lavoratore (D.L. n. 663/1979, art. 2, 1
comma, quale risulta dall'art. 1 della legge di conversione n.
33/1980); il lavoratore, entro due giorni dal rilascio, invia
il certificato all'INPS, o alla struttura sanitaria pubblica
da esso indicata d'intesa con la Regione, e l'attestazione al
datore di lavoro (D.L. n. 663/1979, art. 2, 2 comma, come
sostituito dall'art. 15, 1 comma, L. n. 155/1981); il datore
di lavoro tiene a disposizione dell'INPS la documentazione in
suo possesso, che a richiesta gli produce, e, nei casi in cui
le indennita' debbono essere corrisposte direttamente
dall'Istituto, gli trasmette, entro tre giorni dal ricevimento
dell'attestazione, i dati salariali necessari per il conteggio
(D.L. n. 663/1979, art. 2, 4 comma, come sostituito dall'art.
15, 2 comma, L. n. 155/1981); sullo stato di salute del
lavoratore possono essere eseguite visite di controllo con i
medici dei servizi sanitari indicati dalle Regioni (D.L. n.
663/1979, art. 2, 3 comma, risultante dall'art. 1 della legge
di convesione n. 33/1980); la disciplina dello svolgimento di
questi controlli sara' oggetto di convenzioni tra l'INPS e le
Unita' Sanitarie Locali, da stipularsi sulla scorta di
appositi schemi-tipo predisposti d'intesa tra l'Istituto e le
Regioni e approvati con decreto del Ministro della sanita'
(D.L. n. 168/1981, art. 8 - bis, introdotto dall'art. 1 della
legge di conversione n.331/1981).
Scendiamo, ora, ad un'esposizione particolareggiata delle
vicende che si sono verificate in giurisprudenza in ordine
alla questione dell'onere, a carico del lavoratore, di
documentare la malattia e delle conseguenze della sua
inosservanza. E va detto subito che si e' avuta una vasta
gamma di soluzioni comprese fra due estremi: quello di
- 12 -
stabilire che il diritto all'indennita' e' condizionato dal
tempestivo inoltro, da parte del lavoratore, non soltanto dal
certificato dal cetificato di inizio della malattia, ma anche
di quelli di continuazione e di guarigione, secondo le
disposizioni contenute nel "Regolamento delle prestazioni
economiche" (25), e l'altro estremo di ritenere che il diritto
sia svincolato da qualsiasi adempimento di denuncia della
malattia, essendo sufficiente farlo valere prima che maturi la
prescrizione estintiva (26). Esclusa subito l'attendibilita'
sia del primo indirizzo, che attribuisce al "Regolamento delle
prestazioni economiche" un'efficacia eccessiva rispetto a
quella compatibile con i vigenti principi sulla gerarchia
delle fonti (27), sia dell'ultimo, che appare "ictu oculi" del
tutto arbitrario, e' il caso di rivolgere l'attenzione agli
indirizzi intermedi. Alcune sentenze si sono limitate a
occuparsi della legittimita' delle norme che prevedono la
perdita del diritto all'indennita' in caso di omesso o ritardo
invio, da parte del lavoratore, dei certificati di
continuazione della malattia e di quello di guarigione; e
hanno stbailito che esse sono legittime, perche' il "Reg.
prestaz. econ. " e' un atto interno dell'INAM privo di
efficacia normativa (28). Le sentenze che si sono occupate "ex
professo" delle conseguenze dell'omissione o del ritardo
nell'invio del certificato di insorgenza della malattia, si
possono ripartire in due gruppi: uno e' costituito da quelle
secondo cui l'indennita' non e' dovuta al lavoratore, essendo
ravvisabile "in re ipsa" un pregiudizio per l'assicuratore,
che si identifica con l'impossibilita', conseguente
all'inadempimento del lavoratore, di svolgere con
tempestivita' gli opportuni accertamenti (29); nell'altro
gruppo rientrano le sentenze secondo le quali non si puo'
ritenere "sic et simpliciter" legittimo il rifiuto
dell'indennita', giacche', ai sensi dell'art. 1915 cod. civ.
(la sola norma che trova applicazione), l'assicuratore puo'
rifiutare l'indennita' solo se dimostri che l'inadempimento
dell'assicurato e' stato doloso; altrimenti, si deve presumere
essersi trattato di inadempimento colposo e l'assicuratore
puo' solo ridurre l'indennita' in ragione del pregiudizio che
dimostri essergliene derivato: pregiudizio il quale non si
puo' identificare con l'impossibilita' di svolgere tempestivi
accertamenti, ma deve essere di natura economica (30).
Dopo ben quattordici sentenze della Corte Suprema a
sezioni unite e cinque a sezione singola (Lavoro), e' chiaro
- 13 -
che quest'ultimo indirizzo va ormai considerato come
definitivo (fino a un'eventuale modifica del diritto positivo
siano state spalancate le porte a qualsiasi abuso e a
qualsivoglia simulazione da parte del lavoratore, al quale si
debba sempre corrispondere l'indennita' senza poter mai
opporre alcuna eccezione in ordine alla certificazione della
malattia. Le sezioni unite, al riguardo, hanno precisato che
l'esistenza della malattia e il carattere invalidante della
medesima debbono essere dimostrati dal lavoratore; e "il
giudice dovra' attentamente valutare se l'attore assolva in
modo adeguato e sufficiente l'onere probatorio ...., insieme
considerando la maggior difficolta' di prova contraria
incontrata, per il tempo trascorso, dall'istituto
assicuratore, in precedenza impedito, dall'omissione
dell'assicurato, a compiere i tempestivi accertamenti..."
(31). Quindi il lavoratore, sia pure fuori termine, deve
adempiere congruamente l'onere della prova; e l'Istituto
dovra' corrispondergli l'indennita' solo se, in base alla
documentazione di cui sia o possa venire in possesso o agli
eventuali accertamenti che possa ulteriormente svolgere, non
sia in grado di confutare l'esistenza della malattia
invalidante allegata. E se tali accertamenti comportino delle
spese particolari in dipendenza dell'omissione
dell'assicurato, l'indennita' di malattia potra' essere
decurtata del "tantumdem", ricorrendo quel pregiudizio
economico a cui si riferisce l'art. 1915 cod. civ. (32).
Le necessita' di una cernita appare tanto piu' chiara,
quando si tengano presenti gli spaventosi abusi verificatisi
in questo periodo di transizione, in cui l'INPS non e' ancora
riuscito ad organizzare un efficace servizio di controlli non
soltanto sulla persona dei lavoratori ammalati o sedicenti
tali, ma neanche sui certificati (33), e si badi che qualsiasi
servizio di controlli sarebbe in gran parte vanificato da una
interpretazione strettamente letterale di principio secondo
cui il diritto all'indennita' non e' condizionato dal
tempestivo inoltro del certificato di insorgenza della
malattia (leggere il certificato a cose fatte non sempre puo'
equivalere ad eseguire l'accertamento sulla persona del
lavoratore, mentre si dichiara incapace al lavoro per
malattia).
- 14 -
5. Condizioni soggettive: segue. Malattie che dipendono da
comportamento colpevole del lavoratore. - Esistono norme
specifiche escludenti il sorgere del diritto all'indennita'
economica di alcune fattispecie di malattie che dipendono
da comportamento colpevole del lavoratore: precisamente, in
forza di alcune disposizioni contenute negli artt. 19 e 32
c.c. naz. 3 gennaio 1939, poi trasfuse dall'INAM, in sede
di "piccola riforma", nel cpv. dell'art. 3 "Reg. prestaz.
econ.", l'indennita' non e' dovuta se il lavoratore "si sia
dolosamente procurata la malattia" (art. 32 cit., 1
comma), "abbia contratto la malattia per propria colpa"
(art. 19 cit., 1 comma, lett. a) (34) o "sia colpito da
malattie provocate da ubriachezza o da abuso di alcoolici"
(art. 19, 1 comma, lett. b) o, trattandosi di lavoratrice
gestante, la malattia sia connessa con un "procurato
aborto, ove sussistano gli estremi del reato" (art. 32, 1
comma). Del resto, ancorche' non esistessero o non fossero
applicabili queste norme, varrebbero pur sempre i principi
del codice civile, applicabili in materia per il rinvio
operato dall'art. 1886, secondo i quali "l'assicuratore non
e' obbligato per i sinistri cagionati da dolo o da colpa
grave .....dell'assicurato...., salvo patto contrario per i
casi di colpa grave" (art. 1900). E' bene esaminare
distintamente le fattispecie sopra enumerate.
Il caso della malattia che il lavoratore si sia procurata
dolosamente da se' stesso, non si presenta quasi mai, anche
perche' in alcune delle rarissime volte in cui ricorre non ci
vuol molto a sostenere che non si sia trattato di dolo ma di
colpa. Comunque, se il dolo viene dimostrato, non ci dovrebbe
essere dubbio che va negata al lavoratore l'indennita'
economica, anche perche' la verificazione della malattia per
un comportamento doloso dello stesso lavoratore sfugge al
concetto di rischio, che, per il combinato disposto degli
artt. 1886 e 1895 cod. civ., e' indispensabile anche nelle
assicurazioni sociali (35). La giurisprudenza si occupo' anni
fa di un tentativo di suicidio da cui, anziche' la morte,
derviarono all'assicurato gravi lesioni; e si controverteva
unicamente se gli spettassero le prestazioni di carattere
sanitario, trattandosi di un impiegato dell'industria non
avente diritto, per la sua appartenenza a questa categoria,
all'indennita' economica. Ma e' ugualmente utile richiamare i
principi enunciati in quell'occasione: precisamente, i giudici
- 15 -
di merito stabilirono il diritto del lavoratore all'assistenza
osservando, fra l'altro, che chi pone in atto un comportamento
suicida e' affetto da un perturbamento psichico per cui vuole
soltanto sopprimersi e non anche cagionarsi delle semplici
lesioni, in ordine alle quali non ricorre ne' dolo ne' colpa
da parte sua; ma, sia pure "ad abundantiam", precisarono in
via incidentale che la tesi negativa dell'INAM, se mai,
sarebbe stata sostenibile ove il lavoratore avesse domandato
l'indennita' economica (36). La Corte di Cassazione, in
seguito a ricorso dell'INAM, confermo' la sentenza di appello,
ribadendo l'esclusione del dolo per le lesioni cagionate a se'
stesso da chi ha tentato invano il suicidio (37). Il
ragionamento sarebbe persuasivo, solo se fosse dimostrabile
che le norme in esame si riferiscano a un dolo specifico,
cioe' al comportamento posto in essere dall'assicurato allo
scopo ben reciso di poter godere delle prestazioni
assicurative; ma e' da ritenere che basti il dolo generico,
cioe' la semplice volontarieta' delle lesioni. E non sembra
ragionevole ammettere che chi deliberatamente si e' leso per
darsi la morte, non si e' ....voluto ledere!.
La fattispecie delle lesioni dovute a colpa dello stesso
lavoratore fu quella che provoco' all'INAM il piu' gran
numero, in assoluto, di vertenze legali in materia di
indennita' di malattia, controvertendosi se le norme di
esclusione del diritto, formulate con estrema chiarezza, siano
ancora attuali e, in caso affermativo, se siano conciliabili
con i principi della Costituzione (art. 38, 2 comma). Non
mancarono sentenze di merito che decisero in senso favorevole
all'Istituto (38); ma la parte di gran lunga prevalente della
giurisprudenza di merito giunse, con diverse motivazioni, al
risultato favorevole ai lavoratori (39). Alcuni giudici,
ritenuta la vigenza dell'art. 19, lett. a), c.c. naz. 3
gennaio 1939 e, in via subordinata, l'applicabilita' dell'art.
1900 cod. civ., ebbero dei dubbi sulla conciliabilita' di
questa normativa con i principi della Costituzione e rimisero
gli atti alla Corte Costituzionale (40), che, pero', dichiaro'
inammissibile dinanzi a se' la questione relativamente alla
norma corporativa, rilevando che il suo sindacato e' previsto
solo per le norme legislative o aventi forza di legge, mentre
i contratti collettivi di lavoro dell'epoca corporativa sono
stati mantenuti in vigore con la loro efficacia originaria,
senza essere ne' trasformati in norme legislative, ne'
recepiti dall'art. 6 L. 11 gennaio 1943, n. 138; e stabili'
l'infondatezza della questione di costituzionalita'
- 16 -
relativamente all'art. 1900 cod. civ., perche' non
c'entrerebbe con l'assicurazione di malattia gestita
dall'INAM, che sarebbe disciplinata ...compiutamente dalla L.
11 gennaio 1943, n. 138 (41). Alla situazione di incertezza
venne posto fine quando anche la Cassazione stabilita' che
l'art. 38, 2 comma, Cost. assicura il diritto all'assistenza,
anche economica, senza escludere l'iptoesi della malttia
dovuta a colpa del lavoratore, lieve o grave che sia (42), e
il Consiglio di amministrazione dell'INAM, con deliberazione
aodttata il 31 luglio 1974, stabili' che l'Istituto vi si
adeguasse.
La questione circa la legittimita' delle norme che
escludono il diritto all'indennita' giornaliera in caso di
malattia provocata da ubriachezza o da abuso di alcoolici, non
dovrebbe essere confusa con quella sul comportamento colposo
del lavoratore: chi rimane ferito magari per un'estrema
imprudenza nella guida di un veicolo a motore, non si puo'
dire che voleva riportare le lesioni; ma nel caso di chi, per
aver abusato di sostanze alcooliche, ha compromesso la sua
salute e, noncurante di qualsiasi consiglio o prescrizione
medica, continua a bere tranquillamente, perche' si dovrebbe
escludere il dolo?.
Si tenga presente che, sulla questione specifica, la
giurisprudenza si era orientata in senso piu' favorevole
all'INAM che non sulla questione della malattia dovuta a
comportamento colposo; e aveva deciso in senso favorevole
all'Istituto anche la Corte di Appello di Bologna, che era
orientata in senso opposto sull'altra questione (43).
Ma il Consiglio di amministrazione dell'INAM, nel
deliberare il 31 luglio 1974 di adeguarsi all'orientamento
sfavorevole della Cassazione sulla questione della colpa,
stabili' contemporaneamente di cedere anche in tema di
ubriachezza o abuso di alcoolici, senza che al riguardo la
Cassazione fosse stata mai sentita. Ove risulti incontestabile
la dipendenza della malattia da abuso di alcoolici (o di
sostanze stupefacenti), si rifiutera' al lavoratore
l'indennita' e, qualora egli adisca le vie legali, si
coltivera' il giudizio.
La fattispecie della malattia della lavoratrice connessa
con un procurato aborto va ormai notevolmente ridimensionata
per effetto dell'entrata in vigore della L. 22 maggio 1978, n.
- 17 -
194, che consente l'interruzione volontaria della gravidanza.
Comunque, nei casi in cui l'interruzione venga compiuta al di
fuori dei limiti previsti dalla legge e, quindi, ai sensi
dell'art. 19. costituisca tuttora reato, non va corrisposta
l'indennita' di malattia.
6. Condizioni oggettive per l'acquisto del diritto: malattia
invalidante.
Per aver diritto all'indennita', occorre che il lavoratore
sia non soltanto ammalato, ma anche incapace al lavoro a causa
della malattia da cui e' affetto. L'esigenza di questa
condizione dovrebbe essere del tutto ovvia; ma si vede che non
sono mancati dei dubbi al riguardo, dal momento che piu' volte
si e' posto in giurisprudenza il problema di stabilire se
l'indennita' di malattia debba essere corrisposta o non
durante le giornate in cui il lavoratore si sottopone a cure
termali.
In sostanza, trattasi di un problema del tutto falso,
perche', non esistendo norme particolari in materia, dovrebbe
essere ovvio che si deve far capo al principio generale
secondo cui, se l'assistito si trova in condizioni tali di
salute da essere incapace al lavoro, l'indennita' gli spetta;
se, invece, e' capace al lavoro, non gli e' dovuta. E' vero
che anche nella seconda ipotesi, per la distanza tra lo
stabilimento termale e il posto di lavoro, per la interferenza
dell'orario delle cure con quello di svolgimento
dell'attivita' lavorativa, per entrambi i motivi o per altri
ancora, non e' mai possibile in pratica sottoporsi alle cure
e, nella stessa giornata, andare al lavoro; ma, ai fini che
qui interessano, non ha rilevanza qualsiasi ostacolo che
impedisca all'assistito il prestare la sua attivita'
lavorativa, senza tuttavia dipendere da inidoneita' fisica al
lavoro cagionata da malattia. Per quanto riguarda le cure
termali, e' da tener presente che esse sono controindicate
durante una malattia in fase acuta e, percio', il lavoratore
viene solitamente autorizzato ad eseguirle nei soli periodi di
capacita' lavorativa, quando l'affezione per la quale esse
sono state prescritte non si presenta in fase acuta e
invalidante: in queste condizioni, non si puo' riconoscere il
diritto all'indennita' di malattia. Esso, invece, spettera'
nell'ipotesi di esecuzione delle cure termali durante un
periodo di incapacita' al lavoro. La questione specifica,
secondo quanto risulta, non e' stata mai sottoposta alla Corte
- 18 -
di Cassazione: si vede che e' stato ritenuto chiaramente
corretto l'orientamento univoco dei giudici di merito, che e'
nel senso di cui sopra (44).
7. Condizioni oggettive: segue. Carattere generico della
malattia. - Perche' dia diritto all'indennita' giornaliera,
occorre che l'infermita' abbia carattere generico. Quello
di malattia generica e' un concetto convenzionale e
meramente giuridico, non gia' fondato sulla scienza medica:
e' generica ogni malattia che non costituisce oggetto di
una particolare assicurazione sociale, quali sono quelle
contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali
e contro la tubercolosi. La necessita' della distinzione da
quest'ultima forma di assicurazione sociale sussiste anche
dopo che, con la riforma sanitaria, l'indennita'
giornaliera per le malattie generiche e' stata attribuita
allo stesso ente (I.N.P.S.) competente in materia di
prestazioni antitubercolari, giacche' si tratta di
prestazioni distinte che hanno natura in parte diversa e
sono sottoposte a diverse discipline normative circa i
requisiti a cui sono subordinate, i periodi di erogazione e
il "quantum"; non solo, ma per il 1 comma dell'art. 74 L.
23 dicembre 1978, n. 833, l'INPS deve tenere una gestione
separata apposita per le indennita' di malattia e di
maternita'.
La norma che riguarda i rapporti con le altre
assicurazioni sociali e' contenuta nell'art. 5 L. 11 gennaio
1943, n. 138, che prevede la competenza passiva dell'INAM "per
i casi di malattia, ad esclusione di quelle il cui rischio e'
coperto per legge da altre forme di assicurazione".
Nell'interpretazione di questa norma la giurisprudenza, da
principio, era incerta se ritenere che, ad escludere la
competenza passiva dell'INAM, fosse condizione necessaria e
sufficiente l'esistenza di una forma specifica di
assicurazione sociale per la particolare malattia da cui il
lavoratore era stato colpito (45), oppure fosse anche
necessario il concorso delle condizioni richieste per
l'esistenza in concreto del diritto alla prestazione da parte
dell'ente assicuratore specifico (46). Ma con una storica
sentenza del 20 luglio 1955 la Corte di Cassazione, fino ad
allora decisamente orientata nel primo senso, pose le premesse
per una revisione dei rapporti fra l'INAM e gli altri enti
assicuratori, stabilendo, in sostanza, che il rischio e'
altrimenti "coperto" ai sensi dell'art. 5 L. 11 gennaio 1943,
- 19 -
n. 138, quando la malattia da cui l'assicurato e' affetto, non
soltanto rientra fra quelle per le quali esiste una forma
specifica di assicurazione sociale, ma da' diritto in concreto
alla prestazione da parte dell'altro ente assicuratore, avendo
l'assicurato i necessari requisiti di legge (47).
Successivamente, la Cassazione ha deciso altre volte, come
subito vedremo, sempre in quest'ultimo senso, si' che ormai si
puo' parlare di "ius receptum", anche perche' la
giurisprudenza di merito si e' per lo piu' adeguata agli
insegnamenti della Corte Suprema: "per lo piu'", giacche' non
manca qualche decisione dissonante (48).
La questione dell'interferenza con le assicurazioni
specifiche gestite dall'INAIL (infortuni sul lavoro e malattie
professionali) si presento' all'INAM, in materia di indennita'
di malattia, in alcuni casi di recrudescenza degli esiti di
infortuni sul lavoro, la quale aveva comportato inabilita'
temporanea assoluta e si era verificata a notevole distanza di
tempo dall'epoca dell'infortunio (oltre un decennio). L'INAM,
rifacendosi al primo degli orientamenti interpretativi di cui
si e' parlato, eccepi' la propria imcompetenza passiva,
trattandosi di eventi che formavano oggetto di assicurazione
specifica gestita dall'INAIL. Ma, salvo qualche decisione di
merito in tal senso (49), l'esito finale delle liti fu
sfavorevole all'Istituto, essendo stati enunciati questi
principi, che si riportano all'altro orientamento: secondo
quanto previsto dalla speciale legislazione antinfortunistica
- , la riacutizzazione dei postumi di un infortunio da' titolo
al lavoratore unicamente a pretendere dall'INAIL, entro un
decennio dalla costituzione della rendita per inabilita'
parziale permanente, una revisione della stessa in caso di
stabilizzazione dell'inabilita' al lavoro a un livello piu'
elevato, ma non gli da' diritto ad assistenza specifica per le
giornate durante le quali egli risulti temporaneamente del
tutto incapace al lavoro; in siffatta ipotesi, pertanto,
poiche' l'evento non e' coperto dall'assicurazione specifica,
l'INAM deve corrispondere al lavoratore l'indennita' di
malattia (50).
Nella sentenza della Cassazione n. 1166 del 1972 (la prima
che si e' occupata della questione specifica), l'incompetenza
passiva dell'INAIL sembra limitata alla fattispecie dei
postumi ultradecennali; ma nella successiva sentenza n. 278
del 1973 non si parla piu' di decennio: cosicche', si dovrebbe
- 20 -
ritenere che, una volta raggiunta la guarigione clinica dalle
lesioni conseguenti all'infortunio o alla malattia
professionale, qualsiasi riacutizzazione, in qualsiasi periodo
verificatosi (dopo o prima di dieci anni), dia diritto
all'indennita' da parte dell'INPS, non avendo l'INAIL altro
obbligo che quello della revisione della rendita, alle
condizioni di legge. Ma non si puo' proprio dire che questa
soluzione, specie se riferita ai postumi infradecennali, sia
sicuramente esatta, giacche' nella legislazione
antinfortunistica non e' dato rinvenire traccia di norme le
quali stabiliscano chiaramente che l'INAIL non sia mai tenuto
alla cosiddetta "riammissione in temporanea" nemmeno entro i
dieci anni. L'INAM, nell'adeguarsi all'orientamento della
corte Suprema, concordo' con l'INAIL una soluzione bonaria
consacrata in una deliberazione del suo Consiglio di
amministrazione del 4 ottobre 1974: cioe', l'INAM assunse a
proprio carico l'"onere dell'assistenza economica a favore dei
lavoratori, titolari di rendita per infortunio sul lavoro o
per malattia professionale, colpiti da postumi insorti,
rispettivamente, dopo 10 o 15 anni dalla costituzione della
rendita", provvedimento estensibile ai titolari di rendita per
i quali, risultando il grado di invalidita' permanente
determinato, in via definitiva, in misura superiore al 10% ma
inferiore al 16% (T.U. citato, artt. 75 e 137), dopo la
scadenza dei 10 o 15 anni l'INAIL avesse provveduto di ufficio
alla liquidazione in capitale della rendita (51) (per la
riacutizzazione della malattia professionale si parla di
quindici anni anziche' di dieci, perche' l'art. 137, penultimo
cpv. T.U. citato prevede la possibilita' della revisione fino
a quindici anni dalla data di costituzione della rendita).
La questione dell'interferenza dell'assicurazione di
malattia gestita dall'INAM con l'assicurazione contro la
tubercolosi, si pone con riferimento a due diverse
fattispecie: quella del lavoratore che, al momento di
insorgenza della malattia tubercolare, non era soggetto ad
assicurazione contro la tubercolosi o non aveva maturato il
periodo contributivo necessario per il diritto all'assistenza
specifica (cioe', l'anno di contribuzione ex art. 3 L. 6
agosto 1975, n. 419); e la fattispecie del lavoratore colpito
da malattia di natura tubercolare ma non in fase attiva.
Stante i principi generali ormai affermatisi in giurisprudenza
in materia di rapporti tra assicurazione contro le malattie
generiche e altre assicurazioni sociali, e' chiaro che il
lavoratore non in possesso dei requisiti di legge per aver
- 21 -
diritto all'assistenza antitubercolare va considerato ai fini
assicurativ, come affetto da malattia generica, con diritto
alla relativa indennita' (52). Per quanto riguarda la
distinzione fra tubercolosi in fase attiva e tubercolosi in
fase non attiva, e' da tener presente che, mentre dapprima si
ritenne che l'una fosse di competenza dell'INAM e l'altra di
competenza dell'INPS (53), successivamente si e', invece,
affermato il principio secondo cui l'art. 15 R.D.L. 14 aprile
1939, n. 636, parla di diritto degli assicurati "al ricovero
in luoghi di cura quando siano riconosciuti affetti da forma
tubercolare in fase attiva", solo per precisare la condizione
per il diritto al ricovereo, non anche per limitare la
competenza assistenziale dell'INPS a una sola forma di
tubercolosi (54). Una volta accerta, quindi, la natura
tubercolare della malattia, in fase attiva o no, il caso va
trattato secondo il regime assicurativo specifico.
8. Condizioni oggettive: segue. Difetto di retribuzione - Data
la funzione, che ha l'indennita' giornaliera, di compensare la
perdita di retribuzione subita dal lavoratore ammalatosi, essa
postula evidentemente che, durante le giornate di malattia ed
a causa di questa, il lavoratore medesimo rimanga senza
retribuzione. L'esigenza di questa condizione, del resto, e'
espressamente codificata nel 2 comma dell'art. 6 L. 11
gennaio 1943, n. 138, che, riprendendo disposizioni analoghe
contenute nell'art. 12 c.c. naz. 3 gennaio 1939, stabilisce
che "l'indennita' non e' dovuta quando il trattamento
economico di malattia e' corrisposto per legge o per contratto
collettivo dal datore di lavoro o da altri enti in misura pari
o superiore....Le prestazioni corrisposte da terzi in misura
inferiore a quella dell'indennita' saranno integrate dall'Ente
(I.N.A.M.) sino a concorrenza".
Si controverte sul diritto all'indennita' in favore del
lavoratore ammalatosi mentre e' sospeso dal lavoro senza
retribuzione, in quanto in aspettativa per incarichi sindacali
ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei
lavoratori). L'art. 31 prevede per tale fattispecie "il
diritto alle prestazioni a carico dei competenti enti preposti
alla erogazione delle prestazioni medesime": e, poiche' la
norma non distingue tra prestazione e prestazione e non
esclude espressamente quella di natura economica, si e'
sostenuto che essa attribuisca il diritto anche all'indennita'
di malattia (55). Ma e' facile rilevare che, anche quando non
fosse insorta la malattia, l'assistito non avrebbe comunque
- 22 -
prestato, in quanto sospeso, attivita' lavorativa e, quindi, l
amalattia non ha potuto cagionargli astensione dal lavoro con
perdita di retribuzione, che debba essere compensata
dall'erogazione dell'indennita' economica giornaliera (56).
Questione analoga sorge nel caso del lavoratore che,
durante l'infermita', si trovi in carcere: con la differenza
che per tale fattispecie esiste una norma ben precisa,
contenuta nel 2 comma dell'art. 32 c.c. naz. 3 gennaio 1939,
in forza di cui il lavoratore che "sia internato in una casa
di pena durante la malattia" decade dal diritto alle
prestazioni assicurative in genere (in sede di "piccola
riforma", l'INAM trasfuse questa disposizione nell'art. 4, n.
5 "Reg. prestaz. econ.", circoscrivendo la decadenza alla sola
indennita' giornaliera). La norma e' stata considerata tuttora
applicabile, sotto il profilo che, nel caso del soggetto
incarcerato, sulla malattia prevale la privazione della
liberta' personale quale causa impeditiva della prestazione di
lavoro e della percezione del salario: malato o no, il
soggetto, in quanto incarcerato, non avrebbe percepito un
salario, donde l'incompatibilita' fra questa sua condizione e
il diritto di percepire l'indennita' di malattia; e, data la
"ratio", la norma va riferita ad ogni ipotesi di privazione
della liberta' personale del lavoratore in applicazione di
norme penali: quindi, anche all'ipotesi di carcerazione
preventiva (57).
La questione piu' delicata in tema di interferenza
dell'indennita' di malattia con la retribuzione, si e'
presentata nei casi di lavoratori affetti da malattia durante
un periodo di ferie retribuite, controvertendosi sulla
cumulabilita' dell'indennita' con la retribuzione relativa
alle ferie: ed e' tanto piu' delicata perche' connessa con
l'altra questione, prettamente giuslavoristica, di stabilire
se la malattia provochi, oppure no, sospensione delle ferie.
Essa, naturalmente, sorge nei soli casi di ferie
predeterminate in cui la ditta corrisponde la retribuzione al
dipendente e, anche se egli e' stato affetto da malattia, non
e' disposta, per esigenza di produttivita', a farlo godere
delle ferie in un periodo successivo alla guarigione: che'
altrimenti, se le ferie vengono spostate a un altro periodo,
durante la malattia la ditta non corrisponde la retribuzione e
non sussiste il problema della cumulabilita'.
- 23 -
Occorre distinguere a seconda che il lavoratore sia gia'
ammalato all'inizio delle ferie, o vada in ferie sano e si
ammali durante il periodo delle ferie. Con riguardo alla prima
fattispecie, non si dubita che all'insorgenza della malattia
va attribuito effetto sospensivo delle ferie: il datore di
lavoro non puo' mandare in ferie il dipendente gia' ammalato,
perche' la malattia costituisce impedimento al godimento di
esse e non puo' dar luogo al loro decorso; cosicche' o le deve
spostare ad un periodo successivo alla guarigione, o, se non
vi provvede, deve corrispondere al lavoratore un'indennita'
compensativa del mancato godimento (58). Le conseguenze,
quanto al diritto all'indennita' di malattia, sono ovvie: se
lo spostamento delle ferie ad altro periodo non avviene, il
lavoratore ammalato, in effetti, non ne gode e, quindi, la
somma corrispostagli dal datore di lavoro ha natura non gia'
di retribuzione delle ferie, ma di erogazione compensativa del
mancato godimento di esse; conseguentemente, gli e' dovuta
anche l'indennita' di malattia, che, se non e' cumulabile con
la retribuzione, e' invece cumulabile con l'indennita'
compensativa (59).
Con riguardo alla fattispecie del lavoratore che va in
ferie sano e si ammala durante il periodo delle ferie, la
giurisprudenza e' divisa: mentre, secondo alcune sentenze, il
sopravvenire della malattia ha inevitabilmente effetto
sospensivo delle ferie (60), per altre, invece, trattasi di un
fatto irrilevante (61). Quanto al diritto all'indennita' di
malattia, le conseguenze logiche dovrebbero essere che le
sentenze del primo gruppo lo dovrebbero riconoscere, non
diversamente da quel che avviene in caso di malattia gia' in
atto all'inizio del periodo predeterminato per le ferie,
mentre il diritto all'indennita' va negato se si esclude
l'effetto sospensivo delle ferie. La soluzione che appare
corretta e' la prima, essendo indifferente che la malattia
insorga prima o dopo la data iniziale del periodo delle ferie:
quel che importa e' solo la concomitanza temporale tra lo
stato di malattia e il periodo feriale (62). Un posto a se'
occupa la sentenza della Cassazione n. 4970 del 1981, che, pur
ravvisando la sospensione delle ferie, esclude il diritto del
lavoratore all'indennita', giacche' la somma gli era stata
corrisposta dal datore di lavoro quale retribuzione e il
giudice di merito, per il fatto che "ha implicitamente
considerato tale retribuzione come equipollente alla
indennita' sostitutiva delle ferie", secondo la Corte Suprema,
"ha arbitrariamente immutato il titolo in base al quale la
- 24 -
dazione della somma fu incontestatamente effettuata" (63). Ma,
nel caso risolto con la sentenza n. 2019 del 1978, che appare
corretta, alla Cassazione non era sorto il dubbio circa la
possibilita', per il giudice, di mutare il titolo del
pagamento eseguito dal datore di lavoro.
9. Condizioni per la conservazione del diritto: comportamenti
da cui derivano decadenze. - Esistono norme specifiche che
prevedono sanzioni a carico del lavoratore, consistenti nella
perdita, totale o arziale, del diritto gia' acquisito
all'indennita' per un'infermita' in atto, a causa di
comportamenti scorretti da lui tenuti durante la malattia.
Originariamente esse erano contenute nell'art. 19, 2 comma, e
nell'art. 32, 2 comma, c.c. naz. 3 gennaio 1939, in forza dei
quali decadeva dal diritto all'indennita' di malattia, pur
conservando quello alle prestazioni sanitarie, il lavoratore
che fosse uscito di casa senza regolare permesso del medico
(art. 19, 2 comma, lett. a), avesse eseguito durante la
malattia lavori retribuiti (idem, lett. b) o si fosse dedicato
ad attivita' o, comunque, avesse compiuto azioni tali da poter
pregiudicare il decorso della malattia (idem, lett. c); mentre
perdeva il diritto a tutte le prestazioni, anche sanitarie, il
lavoratore che avesse prolungato ad arte o simulato malattia o
carpito alla Mutua prestazioni non dovutegli, oppure alterato
o falsificato certificati medici (art. 32, 2 comma, lett. a),
o che avesse rifiutato di sottoporsi alla visita del medico di
controllo o non avesse seguito le cure mediche prescrittegli
(idem, lett. b). In sede di "piccola riforma" l'INAM trasfuse
queste disposizioni nel "Reg. prestaz. econ.", con una
innovazione in senso favorevole ai lavoratori, giacche'
previde come sanzione, per tutte le fattispecie, la
sospensione del solo diritto all'indennita' economica per non
piu' di 30 giorni (reg. cit., art. 4 e art. 4-bis introdotto
con deliberazione consiliare del 2 dicembre 1966 al fine,
soprattutto, di precisare la durata minima e massima della
sospensione del diritto all'indennita' per le singole
infrazioni). Anche se non vi fossero queste norme espresse,
non sarebbe difficile ricavarle dai principi generali in
materia di obbligazioni e contratti, i quali, benche'
contenuti nel codice civile, non sono circoscritti al diritto
civile e commerciale e a quello privato del lavoro, ma trovano
applicazione, come dovrebbe essere incontroverso, in tutti i
rami del diritto: anche - perche' no? - in quello delle
assicurazioni sociali. Cosi', secondo quanto stabilisce il
codice civile, nel rapporto obbligatorio non soltanto il
- 25 -
debitore, ma anche il creditore deve "comportarsi secondo le
regole della correttezza" (art. 1175); "il contratto deve
essere eseguito secondo buona fede" (art. 1375); "il
prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla
natura della prestazione dovuta" (art. 2104);
nell'assicurazione contro i danni, "l'assicurato deve fare
quanto gli e' possibile per evitare o diminuire il danno"
(art. 1914, 1 comma).
Per quanto riguarda l'orientamento della giurisprudenza,
e' da far presente che molte delle fattispecie sopra enumerate
non hanno mai dato luogo a vertenze legali. Secondo quel che
risulta, la giurisprudenza si e' occupata di tre soltanto;
cioe', quella dell'assicurato che, durante la malattia, sia
uscito di casa violando le prescrizioni del medico curante;
quella dell'assicurato che, con il suo comportamento, abbia
reso impossibile all'istituto assicurare lo svolgimento di
controlli sanitari; e quella dell'assicurato che non abbia
seguito le cure mediche prescrittegli.
In relazione alla prima fattispecie, la giurisprudenza e'
divisa: alcune sentenze hanno stabilito la piena legittimita'
delle norme sanzionatorie (64); altre, invece, hanno deciso in
senso opposto, o sotto il profilo che la legittimita' delle
nrome sanzionatorie postula che esse siano contenute in fonti
legislative, mentre non e' conciliabile con la natura di norme
contrattuali collettive o, peggio, con quella di norme interne
dell'INAM, o sotto il profilo che qualsiasi norma
sanzionatoria contrasta con i principi enunciati dalla Carta
costituzionale (65). Cosi' decidendo, pero', non si tiene
conto del fatto che l'art. 6, 4 comma, L. 11 gennaio 1943, n.
138, e' una norma in bianco, il cui preciso contenuto e' dato,
attraverso un rinvio formale, dai contratti collettivi
nazionali di lavoro dell'epoca corporativa, che per questa via
vengono a far parte integrante della L. n. 138; e, quanto
all'abusato riferimento ai principi costituzionali, ci si
dovrebbe convincere che essi non sono incompatibili con
qualsiasi norma restrittiva o preclusiva dei diritti dei
lavoratori, ma consentono al legislatore ordinario di
prevedere ragionevoli limitazioni. E non si dica che sia
irragionevole limitare il diritto all'indennita' di malattia,
escludendolo per il lavoratore che, anziche' comportarsi con
debita diligenza in modo da poter al piu' presto guarire e
tornare al lavoro, fa quello che gli pare e piace, noncurante
se possa derivarne un aggravamento o un prolungamento della
- 26 -
malattia. Del resto, c'e' una sentenza in cui la Corte di
Cassazione, pur essendo stato posto il problema della
lavoro (datore di lavoro-lavoratore), sia pure "ad
abundantiam" ha parlato di legittimita' anche nell'ambito del
rapporto assicurativo con l'INAM (66).
Quanto alla fattispecie del lavoratore che si sia
sottratto all'accertamento sanitario da parte dell'istituto
assicuratore, sia pure non facendosi trovare in casa dal
medico di controllo in un'ora in cui, secondo le prescrizioni
del medico curante, vi sarebbe dovuto stare, la
giurisprudenza, anche della Cassazione, e' orientata in senso
favorevole all'INAM, ritenendo che il comportamento del
lavoratore si risolve in un difetto di prova sull'esistenza
dell'incapacita' al lavoro per causa di malattia (67).
Ovviamente, lo stesso e' da dire se l'assicurato poteva uscire
liberamente, ma era stato preavvertito del giorno e dell'ora
stabilita per la visita di controllo, o se era stato invitato
a recarsi in ambulatorio, in un'ora in cui poteva uscire, per
essere sottoposto ivi ad accertamento sanitario (68). Per
completezza e' da dire che non manca qualche giudice di merito
il quale ritiene illegittime le norme che sanzionano
l'infrazione "de qua" (69).
Quanto alla fattispecie dell'assicurato che non abbia
seguito le cure mediche prescrittegli, risulta una sola
sentenza, la quale ha stabilito la legittimita' della sanzione
inflitta dall'INAM all'assistito che abbia rifiutato le cure
prescrittegli, purche' non si tratti di dover sottostare ad
intervento chirurgico: al riguardo, la sentenza ha stabilito
che, quando la legge vuol far discendere dal rifiuto
dell'intervento chirurigco la perdita del diritto alle
prestazioni, lo deve dire espressamente, come faceva l'art. 32
R.D. 17 agosto 1935, n. 1765 (70).
10. Giornate indennizzabili. - Il diritto all'indennita' non
sussiste per tutte le giornate comprese nel periodo di
malattia: e questo spiega lo scarto, a cui si e' gia'
accennato, tra periodo di assistenza sanitaria e periodo di
erogazione della prestazione economica.
Anzitutto, l'indennita' non e' dovuta per i primi tre
giorni di malattia, che costituiscono il periodo cosiddetto di
"carenza" (v. combinato disposto dell'art. 6, 4 comma, L. 11
- 27 -
gennaio 1943, n. 138, e dell'art. 14, 1 comma, c.c. naz. 3
gennaio 1939; art. 3, 1 comma, D.L.C.P.S. 31 ottobre 1947, n.
1304) (71), con la sola eccezione per l'ipotesi di ricaduta,
in cui l'indennita' spetta fin dal primo giorno del nuovo
periodo di malattia (72).
Il diritto all'indennita' va, poi, escluso, per le
domeniche, giacche', data la sua natura risarcitoria, essa va
corrisposta per le sole giornate in relazione alle quali la
malattia ha impedito al lavoratore di prestare la propria
attivita' lavorativa e di percepire la retribuzione: il che
ordinariamente non si verifica nelle domeniche. Se ne ha una
conferma nell'art. 18 c.c. naz. 3 gennaio 1939, che attribuiva
al consiglio direttivo della Mutua (corrispondente al
consiglio di amministrazione dell'INAM) la semplice facolta'
di deliberare ogni sei mesi se l'indennita' dovesse essere
corrisposta anche nei giorni festivi (73).
Per le festivita' infrasettimanali e' da fare un discorso
differente, giacche' la legge attribuisce ai lavoratori il
diritto alla normale retribuzione, anche se tali festivita'
ricadano in un periodo di assenza per malattia (combinato
disposto degli artt. 5 L. 27 maggio 1949, n. 260, 2 e 3 L. 31
marzo 1954, n. 90): quindi, non spetta l'indennita', che non
e' cumulabile con la retribuzione. Pero' l'art. 3 L. n. 90
cit. esclude il diritto alla retribuzione se le festivita'
ricadano in "periodi di sospensione del lavoro in atto da
oltre due settimane". Se ne deduce che per le festivita'
infrasettimanali il diritto all'indennita' di malattia non
puo' essere ne' sempre escluso, come fanno alcune sentenze
(74), ne' sempre riconosciuto, come fanno altre (75); ma si
deve distinguere a seconda che le dette festivita' siano
comprese o non nelle prime due settimane dall'ultima giornata
di presenza al lavoro: nel primo caso, il diritto va escluso,
spettando al lavoratore la retribuzione da parte del datore di
lavoro; nel secondo caso, non gli si puo' contestare il
diritto all'indennita' (76).
11. Misura; interessi moratori; rivalutazione monetaria. -
Come si e' gia' accennato, l'erogazione dell'indennita' di
malattia consiste nel pagamento al lavoratore di una somma di
denaro. Per quel che concerne il "quantum", originariamente si
trattava di una somma fissa giornaliera rapportata
all'ammontare della paga oraria, secondo certi scaglioni di
salario (v. ad es., la tabella di cui all'art. 13 c.c. naz. 3
- 28 -
gennaio 1939), o, per gli agricoli, riferita alle singole
categorie di lavoratori (salariati fissi, braccianti abituali,
ecc.) e distinta secondo che si trattasse di uomini oppure di
donne o ragazzi (v. tabella B all. 2 al D. Lgt. 9 aprile 1946,
n. 212). Successivamente sono intervenute delle disposizioni
legislative che hanno stabilito l'indennita', in generale, in
una percentuale (50%) della retribuzione media globale
giornaliera percepita dal lavoratore anteriormente alla
malattia (v., per il settore industria, la tabella all. 1 al
D. Lgs. Lgt. 19 aprile 1946, n. 213; per il settore
agricoltura, la L. 26 febbraio 1963, n. 329, art. 1; per il
settore commercio, la tabella all. 1 al D.L.C.P.S. 31 ottobre
1957, n. 1304). Nell'ambito della cosiddetta "piccola riforma"
attuata con provvedimenti interni per supplire all'inerzia del
legislatore, l'INAM elaboro', quanto alle assistenze di natura
eocnomica, un "Regolamento delle prestazioni economiche agli
assicurati", approvato con D.M. 10 aprile 1963, che innovo' la
disciplina legislativa in senso favorevole ai lavoratori: in
particolare, stabili' che, se la malattia perdura dopo il 20
giorno da quello dell'insorgenza, l'indennita' viene elevata,
dal 21 giorno in poi, dal 50% ai 2/3 della retribuzione
giornaliera (Reg. cit., art. 12). Per i lavoratori agricoli,
la norma ha avuto una consacrazione legislativa con l'art. 1
L. 8 agosto 1972, n. 457.
Per fattispecie particolari esistono delle norme apposite,
che prevedono misure ridotte dell'indennita' di malattia.
cosi', essa spetta in misura pari ai 2/3 di quella normale, se
l'infermita' insorge quando l'assicurato non e' in costanza di
lavoro, ma si trova, purche' da non oltre due mesi (periodo
detto di "protezione" o "copertura assicurativa"), licenziato,
dimissionario o sospeso dal lavoro senza retribuzione (c.c.
naz. 3 gennaio 1939, art. 30, e Reg. prestaz. econ., art. 12);
e, durante il ricovero ospedaliero a carico dell'ente gestore
dell'assistenza sanitaria, spetta in misura pari ai 2/3 o ai
2/5 di quella normale, secondo che il lavoratore abbia o no
familiari viventi a carico (c.c. naz. 3 gennaio 1939, art. 20
e Reg. prestaz. econ., art. 14).
La fattispecie del lavoratore ricoverato in ospedale
durante la malattia, in questi ultimi tempi ha dato luogo a
varie vertenze legali, sostenendosi da alcuni che, poiche' per
l'art. 12 D.L. 8 luglio 1974, n. 264 (convertito con
modificazioni nella L. 17 agosto 1974, n. 386), la competenza
passiva in materia di assistenza ospedaliera e' stata
- 29 -
trasferita dagli enti mutualistici alle Regioni, ha perduto
ogni ragion d'essere la normativa che prevedeva una riduzione
nella misura dell'indennita', parlando, fra l'altro,
testualmente, di "ricovero a spese della Mutua" (77). Ma la
tesi non appare convincente, poiche' la norma postula soltanto
che il ricovero non avvenga a spese dell'infermo o di suoi
familiari, ma sia a carico di un ente gestore di assistenza di
malattia, non necessariamente mutualistico: e la "ratio" e'
evidente, dato che il lavoratore ricoverato riceve un
trattamento comprensivo anche del vitto e, rispetto a quello
che non si trova ricoverato, e' meno bisognoso di assitenza
economica (78). La questione, comunque, e' aperta, non
essendosi ancora pronunciata al riguardo la Corte di
Cassazione, che ne e' stata investita.
Per quanto riguarda cio' che si deve intendere per
retribuzione giornaliera a cui commisurare l'indennita' di
malattia, il principio generale e' che va preso in
considerazione tutto cio' che, nell'ultimo periodo
quadrisettimanale o mensile precedente la data di insorgenza
dell'infermita', il lavoratore ha ricevuto dal datore di
lavoro, anche in natura, a titolo di compenso per l'opera
prestata; il totale si deve dividere per il numero delle
giornate di lavoro compiute nel suddetto periodo o, se si
tratta di un dipendente del commercio con qualifica
impiegatizia, per 30: il risultato cosi' ottenuto costituisce
il salario giornaliero da prendere a base per il computo
dell'indennita' di malattia.
Qualche difficolta' ha fatto sorgere al riguardo la
fattispecie della cosiddetta settimana "corta", in cui cioe',
fermi restando, rispetto alla fattispecie della settimana
piena normale, il numero delle ore di lavoro compiute e
l'ammontare complessivo della retribuzione percepita,
l'attivita' lavorativa viene svolta in soli cinque giorni
anziche' in sei, in modo che il sesto giorno rimanga libero e
le ore di lavoro ad esso relative vengano ripartite fra gli
altri cinque giorni, in aggiunta a quelle normali. La
questione sembrerebbe definitvamente risolta con una
interessante sentenza della Corte Suprema (79), la quale ha
stabilito che, poiche' in tale fattispecie rimangono invariati
la retribuzione settimanale e il numero delle ore lavorative
previsto per sei giornate, cioe' il numero delle stesse
giornate lavorative, "ai fini del calcolo del salario medio
giornaliero si devono considerare non 5, ma 6 giornate
- 30 -
settimanali retribuite, e nel liquidare al lavoratore infermo
l'indennita' di malattia devono essergli corrisposti 6 assegni
giornalieri alla settimana per sei giorni da lunedi' a sabato
incluso".
A un contenzioso piuttosto nutrito ha dato luogo la
determinazione dell'indennita' di malattia in favore dei
lavoratori agricoli secondo le innovazioni introdotte per
questo settore dalla L. 8 agosto 1972, n. 457. Essa, al 1
comma dell'art, 3, prevede che l'indennita' si deve
commisurare alla retribuzione fissata secondo le modalita' di
cui all'art. 28 DPR 27 aprile 1968, n. 488, il quale, al 1
comma, aveva indicato i criteri per la determinazione della
base imponibile valevole ai fini dell'assicurazione generale
per l'invalidita' e vecchiaia, prevedendo una determinazione
annuale da attuarsi per ogni provincia con decreto del
Ministro del Lavoro, e, al 3 comma, aveva stabilito le misure
di retribuzione da prendersi a base nell'intervallo tra il 1
agosto 1968 e la data di emanazione dei decreti ministeriali.
L'art. 3 L. n. 457, dopo aver posto al 1 comma la regola
suddetta, ha elevato all'ultimo comma la misura provvisoria di
retribuzione stabilita dall'art. 28 cit., cosi' statuendo:
"Fino all'emanazione dei relativi decreti ministeriali e'
stabilita una retribuzione media di L. 3250 giornaliere". Il
problema si e' posto in quanto i decreti ministeriali vengono
emanati non gia' all'inizio, ma nel corso dell'anno a cui si
riferiscono e, per i giornalieri di campagna, verso la fine
dell'anno o addirittura al principio di quello successivo:
sicche', una volta che essi siano stati emanati, e' da vedere
se valgano dal giorno dell'emanazione in poi o retroagiscano
fino all'inizio dell'anno o, quanto ai primi, fino alla data
di entrata in vigore della L. n. 457. L'accoglimento di
quest'ultima soluzione complica le cose, in quanto comporta
che l'indennita' che, prima dell'emanazione del decreto
ministeriale, viene liquidata in base al salario giornaliero
previsto dal decreto ministeriale dell'anno precedente o, da
principio, e' stata liquidata in base alla suddetta misura di
L. 3250 giornaliere, si deve considerare provvisoria e
soggetta a complesse operazioni di conguaglio. Tuttavia, salvo
una parte della giurisprudenza di merito (80), la Corte di
Cassazione ha stabilito univocamente in varie sentenze il
principio della provvisorieta' e del conguaglio (81).
Trattando del contenuto del diritto all'indennita' di
malattia, ci si deve occupare anche delle questioni
- 31 -
concernenti gli interessi moratori e la rivalutazione
monetaria.
Per quel che concerne gli interessi, e' da ritenere che
essi spettino al lavoratore, ogni qualvolta vi sia un ritardo
nel pagamento dell'indennita': e cio' perche', come vedremo,
e' prevista una scadenza ben precisa per il suo pagamento e,
quindi, trova applicazione il principio generale dell'art.
1224 cod. civ., secondo cui, "nelle obbligazioni che hanno per
oggetto una somma di denaro, sono dovuti dal giorno della mora
gli interessi legali, anche se non erano dovuti
precedentemente e anche se il creditore non prova di aver
sofferto alcun danno". Si puo' solo discutere da quale data
essi decorrano: al riguardo, in giurisprudenza vengono seguite
varie soluzioni, senza che nessuna sia ancora riuscita a
prevalere sulle altre: secondo alcune decisioni, essi
decorrono dalla data di scadenza della prestazione (82);
secondo altre, dal giorno finale del periodo di malattia (83);
secondo altre ancora, decorrono dalla domanda giudiziale (84).
Non mancano sentenze che si limitano a stabilire la spettanza
degli interessi legali, lasciando insoluta la questione della
loro decorrenza (85). Nei casi in cui il ritardo nel pagamento
dell'indennita' e' imputabile al datore di lavoro, essendo
egli tenuto ad anticiparla per l'art. 1 D.L. 30 dicembre 1979,
n. 663, e' sostenibile che l'INPS non sia tenuto a
rimborsargli gli interessi, che gravano unicamente su esso
datore di lavoro (trattasi, pero', di questione del tutto
nuova, su cui non risulta che si siano ancora avute pronunce
giurisprudenziali).
Veniamo, ora, alla questione se la somma spettante al
lavoratore per indennita' di malattia debba essere sottoposta
a adeguamento in rapporto alla svalutazione della moneta. In
base ai principi generali, non dovrebbe essere dubbia la
risposta negativa, giacche', trattandosi di debito pecuniario,
vale il cosiddetto principio nominalistico ex art. 1277 cod.
civ., secondo cui esso si estingue "con moneta avente corso
legale nello Stato al tempo dal pagamento e per il suo valore
nominale". I dubbi sono sorti con l'entrata in vigore della
"novella" 11 agosto 1973, n. 533, per effetto della quale il
3 comma dell'art. 429 del codice di rito, compreso nel capo
relativo alle controversie individuali di lavoro, risulta
formulato come seuge: "Il giudice, quando pronuncia sentenza
di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di
lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura
- 32 -
legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore
per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al
pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della
maturazione del diritto". Poiche' nel successivo capo
riguardante le controversie in materia di previdenza e di
assistenza obbligatoria c'e' la generale norma di rinvio
dell'art. 442, 1 comma, alcune sentenze di merito hanno
attribuito al lavoratore il diritto alla rivalutazione della
somma dovutagli quale prestazione previdenziale (86). Ma le
magistrature supreme hanno deciso in senso opposto, stabilendo
l'inapplicabilita' alle controversie previdenziali dell'art.
429, 3 comma, che e' una norma di natura sostanziale, mentre
il rinvio e' operato dall'art. 442, 1 comma, unicamente alle
norme procedurali sulle controversie individuali di lavoro: e
alcune sentenze della Cassazione hanno enunciato questo
principio con riguardo specifico all'indennita' di malattia
erogata dall'INAM (87).
Prima di chiudere questa parte in tema di "quantum",
appare utile accennare ad alcune questioni che, se non sono
ricorrenti, tuttavia hanno dato luogo e possono ancora dar
luogo a vertenze giudiziarie.
Cosi', si e' posto il problema di stabilire se, in caso di
ricaduta nella stessa malattia, l'indennita' giornaliera va
commisurata alla paga percepita dal lavoratore nel periodo
anteriore al primo episodio morboso, o a quella percepita
nell'intervallo tra la guarigione e l'episodio morboso
successivo. Si hanno solo sentenze di merito, le quali hanno
deciso nel primo senso, ritenendo che l'art. 17 c.c. naz. 3
gennaio 1939, quando definisce come continuazione della
malattia la ricaduta nella stessa infermita' o la contrazione
di una infermita' conseguenziale che si verifichi entro trenta
giorni dalla data del certificato di guarigione relativo a
quella precedente, intende dare al concetto di continuazione
una rilevanza generale: cioe', i due episodi morbosi si
debbono considerare come una sola malattia a tutti i possibili
effetti (88). Non risultano decisioni "ad hoc" della Corte di
Cassazione, la quale pero', sia pure "per incidens" ad altro
proposito, ha enunciato il principio secondo cui l'art. 17
cit. equipara la ricaduta alla continuazione della precedente
malattia al solo fine di escludere che la c.d. "carenza (v.
"infra"), gia' applicata per i primi tre giorni di malattia,
debba essere applicata una seconda volta in caso di ricaduta
(89). A tutti gli altri fini, dunque, la ricaduta e' una
malattia a se': con la conseguenza che l'indennita' per le
giornate di ricaduta si deve commisurare alla paga percepita
dal lavoratore nell'intervallo tra i due episodi morbosi. In
questo senso si deve intendere modificato il contenuto della
circolare n. 134368 AGO/14 del 28 gennaio 1981, pag. 6, punto
5, lett. c), e della circolare n. 134386 AGO/83 del 6 aprile
1982, pag. 1.
- 33 -
Nel caso della malattia del lavoratore che, per un
precedente infortunio sul lavoro o una precedente malattia
professionale, percepisce dall'INAIL una rendita per
inabilita' parziale permanente, si e' controverso se
l'indennita' di malattia vada corrisposta in msiura intera,
oppure debba essere decurtata dell'importo della rendita
corrispondente alle giornate di malattia da indennizzare. Non
risulta che sulla questione si sia mai pronunciata la Corte
Suprema: si hanno solo poche sentenze di merito, alcune delle
quali hanno deciso nel senso che l'indennita' si deve
corrispondere per intero, cumulandola con la rendita (90),
mentre altre, con un ragionamento tutt'altro che persuasivo,
hanno enunciato il principio opposto (91).
12. Modalita' di pagamento - Prima della riforma sanitaria, le
disposizioni vigenti prevedevano che l'indennita' economica di
malattia (o di maternita') venisse erogata agli assistiti
direttamente dall'INAM, senza intermediazione dei datori di
lavoro; pero' negli ultimi tempi l'Istituto aveva stipulato
convenzioni "ad hoc" con singole ditte, in forza delle quali
queste ultime anticipavano l'indennita' ai dipendenti per
conto dell'Istituto, con cui poi regolavano i loro rapporti di
dare e avere. Il sistema, ancorche' non immune da
inconvenienti, si dimostro' vantaggioso per i lavoratori, in
quanto idoneo a consentire loro la percezione dell'indennita'
in tempi piu' brevi di quelli connessi con le esigenze della
burocrazia. Percio', il legislatore lo ha recepito nell'art. 1
D.L. 30 dicembre 1979, n. 663 (convertito con modificazioni
nella L. 29 febbraio 1980, n. 33), il quale stabilisce che,
dal 1 gennaio 1980, il datore di lavoro deve anticipare
l'indennita' di malattia (o di maternita') ai dipendenti (1
comma), comunicando all'INPS "nella denuncia contributiva....
i dati relativi alle prestazioni economiche erogate nei
periodi di paga scaduti nel mese al quale si riferisce la
denuncia stessa, ponendo a conguaglio l'importo complessivo di
detti trattamenti con quelli dei contributi e delle altre
somme dovute all'Istituto predetto secondo le disposizioni
previste in materia di assegni familiari, in quanto
compatibili" (2 comma); se, pero', si tratta di lavoratori
agricoli - che non siano dirigenti o impiegati -, di
lavoratori assunti a tempo determinato per lavori stagionali,
di addetti a servizi domestici e familiari, o di lavoratori
disoccupati o sospesi dal lavoro che non usufruiscono del
- 34 -
trattamento di integrazione salariale, l'indennita' e' pagata
direttamente dall'INPS (6 comma); queste modalita', comunque,
si applicano "nei casi in cui esse siano previste dai
contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria" (7
comma). E' prevista la possibilita' che con decreto del
Ministro del lavoro, sentito il Consiglio di amministrazione
dell'INPS; in relazione a situazioni particolari e tenuto
conto delle esigenze dei lavoratori e dell'organizzazione
aziendale, siano stabiliti sistemi diversi di corresponsione
dell'indennita' (10 comma).
Una recente sentenza del Tribunale di Trento ha stabilito
che la norma, secondo cui ai lavoratori sospesi dal lavoro che
non usufruiscono del trattamento della Cassa Integrazione
Guadagni l'indennita' di malattia (o di maternita') dev'essere
pagata direttamente dall'INPS e non anticipata dal datore di
lavoro, si riferisce ai soli lavoratori che, in assoluto, non
usufruiscono del detto trattamento e non anche ai lavoratori
per i quali esso, di cui gia' usufruivano, viene sospeso per
essere sostituito dalla corresponsione dell'indennita' di
malattia. In tal caso, quindi, opera il principio generale che
prevede l'anticipazione dell'indennita' da parte del datore di
lavoro (92).
Per quanto riguarda la posizione giuridica che va
attribuita al datore di lavoro in questa, solo apparentemente
semplice, vicenda, sembrerebbe che esso sia non gia'
l'obbligato diretto alla corresponsione dell'indennita' nei
confronti del lavoratore, ma solo un "adiectus solutionis
causa", cioe' un semplice incaricato del pagamento, proprio
come in materia di assegni familiari. Le prime sentenze di
merito, pero', qualificano il datore di lavoro come debitore
diretto, legittimato passivo all'azione giudiziale di condanna
da parte del lavoratore (93).
13. Termine per il pagamento. - Quanto al termine per il
pagamento dell'indennita' in favore del lavoratore, la
disciplina attuale non e' unitaria, ma differenziata a seconda
che si tratti di lavoratori a cui la prestazione deve essere
anticipata dal datore di lavoro, o di lavoratori a cui va
liquidata direttamente dall'INPS.
Per i primi il D.L. 30 dicembre 1979, n. 663, stabilisce
che, durante la malattia, il datore di lavoro deve
corrispondere al dipendente anticipazioni sull'indennita' "a
- 35 -
norma dei contratti collettivi e, in ogni caso, non inferiori
al 50 per cento della retribuzione del mese precedente";
provvedera' al conguaglio "all'atto della corresponsione della
retribuzione per il periodo di paga durante il quale il
lavoratore ha ripreso l'attivita' lavorativa" (art. 1, 1
comma). Il datore di lavoro che non provveda nei termini
all'erogazione dell'indennita' "e' punito con un'ammenda di L.
50.000 per ciascun dipendente a cui si riferisce l'infrazione"
(art. 1, 12 comma). Per effetto della recente legge sulla
depenalizzazione, al posto di "ammenda" si deve leggere
"sanzione amministrativa" (v. art. 32 L. 24 novembre 1981, n.
689).
Per i lavoratori ai quali l'indennita' deve essere
corrisposta direttamente dall'INPS, valgono tuttora le vecchie
disposizioni concernenti l'INAM: cioe', attraverso il rinvio
formale operato dal 4 comma dell'art. 6 L. 11 gennaio 1943,
n. 138, trova applicazione l'art. 18 c.c. naz. 3 gennaio 1939,
in forza del quale "l'indennita' di malattia viene pagata
settimanalmente in via posticipata". In altri termini, deve
essere corrisposta in piu' soluzioni, riferite ciascuna a una
settimana di malattia e con scadenza nel primo giorno
successivo a quello finale della settimana (94). Secondo il
Pretore di Trani, invece, e' da dubitare che la norma sopra
richiamata viga tuttora: comunque, essa imporrebbe all'Ente
erogatore dell'indennita' soltanto un dovere di buona e
corretta amministrazione, a cui attenersi per quanto
possibile, e non un preciso obbligo giuridico (95).
Stabilire quando matura il diritto del lavoratore
all'indennita' di malattia, serve per fissare la data di
decorrenza degli interessi (ove non si ritenga che decorrano
dalla domanda giudiziale) (96) e quella di decorrenza del
termine di prescrizione estintiva.
14. Cessazione del diritto; protezione e copertura
assicurativa; limite temporale. - Anche della cessazione del
diritto all'indennita' di malattia si puo' parlare, come per
la sua insorgenza, in due sensi diversi: in quello di venir
meno della posizione soggettiva attiva che consentiva al
lavoratore di pretendere l'indennita' per le malattie che,
eventualmente, lo avrebbero colpito in futuro, e nel senso di
venire meno della possibilita' di pretendere la prestazione
pur essendovi in atto una infermita' invalidante.
- 36 -
Nel primo senso, la cessazione del diritto si verifica per
il venire meno, anche in via soltanto temporanea,
dell'attivita' lavorativa retribuita: licenziamento,
dimissioni o sospensione. A numerose vertenze legali ha dato
luogo la fattispecie del lavoratore posto in trattamento di
integrazione salariale senza alcuna prestazione di attivita'
lavorativa ("a zero ore"), sostenendosi, "hinc", che non
ricorra un'ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro e,
quindi, permanga integro il diritto alle prestazioni in caso
di malattia (97); "inde" la tesi opposta (98). Non e' facile
spiegarsi come sia possibile che non ricorra un'ipotesi di
sospensione, dal momento che sono sospese le obbligazioni
fondamentali che dal contratto di lavoro derivano alle due
parti: cioe', quella del lavoratore di prestare l'attivita'
lavorativa, e quella del datore di lavoro di corrispondergli
la retribuzione. Per i lavoratori agricoli, la perdita del
diritto alla prestazione di malattia consegue alla
cancellazione dagli elenchi, allo scadere del periodo di
validita' degli stessi (art. 4, 3 comma, D. Lgs. Lgt. 9
aprile 1946, n. 212) o al rilascio in via di urgenza, da parte
dello SCAU, di un certificato comprovante la perdita dei
requisiti per l'iscrizione (art. cit., 5 comma).
Con la cessazione o sospensione del rapporto di lavoro il
diritto all'assistenza di malattia non viene meno subito, ma
dura ancora per un certo periodo detto di "protezione" o
"copertura assicurativa". Esso e' previsto dagli artt. 7 e 30
c.c. naz. 3 gennaio 1939, per effetto dei quali il diritto
all'indennita' di malattia si protrae per due mesi oltre la
data di cessazione o di inizio della sospensione del rapporto
di lavoro. Il principio e' stato recepito dall'art. 2, 2
comma, "Reg. prestaz. econ.", il quale, pero', anziche' di due
mesi, parla di 60 giorni; e, siccome non sempre due mesi
consecutivi corrispondono a 60 giorni, nei casi di contrasto
ci sembra che debba prevalere la disciplina del c.c., essendo
il "Reg. prestaz. econ." un atto interno dell'INAM. L'Istituto
di cui ci si sta occupando, gia' inapplicabile ai lavoratori
dell'agricoltura, e' stato esteso a questo settore dall'art.
2, 2 comma, L. 8 agosto 1972, n. 457. Chiudiamo l'argomento
in tema di "protezione" o "copertura assicurativa" facendo
menzione di alcuni notevoli principi enunciati dalla
giurisprudenza:
- trattandosi di un istituto che ha carattere eccezionale,
esso va inteso restrittivamente, nel senso che, se a un
- 37 -
periodo di sospensione (ad es., per integrazione salariale)
segue la cessazione del rapporto di lavoro, il diritto
perdura comunque per due soli mesi dopo l'ultima giornata
lavorativa: non e' pensabile che, una volta sopravvenuta la
cessazione, da essa decorrano altri due mesi di "protezione"
o "copertura assicurativa" (99);
- al lavoratore iscritto negli elenchi nominativi degli
agricoli che si occupi temporaneamente nell'industria, non
si applica la copertura assicurativa prevista per
quest'ultimo settore, giacche', immediatamente dopo la
cessazione dell'occupazione temporanea, si riattiva il
diritto all'assistenza connesso all'iscrizione negli elenchi
nominativi dell'agricoltura (100);
- la copertura assicurativa non si applica al pensionato, il
quale, dal giorno successivo alla cessazione del lavoro, non
puo' essere piu' assistito come lavoratore e, quindi, ha
diritto alle sole prestazioni di carattere sanitario (101).
Nel caso, pero', del titolare di pensione che assuma un
nuovo lavoro, dalla cessazione o sospensione di questo
scatta la copertura assicurativa connessa alla qualita' di
lavoratore: quindi, fino all'esaurimento del periodo di
copertura spetta anche l'indennita' di malattia (102).
La cessazione del diritto all'indennita' nel senso di
venir meno della possibilita' di pretendere la prestazione pur
essendovi in atto una malattia invalidante, si verifica per il
conseguimento del limite temporale massimo, che,
originariamente stabilito in 150 giorni per ogni anno solare
(combinato disposto dell'art. 6, 4 comma, L. 11 gennaio 1943,
n. 138, e dell'art. 14, 1 comma, c.c. naz. 3 gennaio 1939),
e' stato poi esteso in sede di "piccola riforma" a 180 giorni
(art. 2, 3 comma, "Reg. prestaz. econ."). Peraltro, non
appare dubbio che questo limite temporale sopravvive alla
recente riforma, che ha esteso il diritto all'assistenza
all'intero anno solare unicamente per le prestazioni di
carattere sanitario (v. art. 2 L. 23 dicmebre 1978, n. 833).
La giurisprudenza prevalente ha stabilito piu' volte che
il limite di 180 giorni va inteso come arco di tempo entro il
quale, durante l'anno solare, si ha diritto all'indennita' di
malattia e non gia' nel senso di numero di assegni giornalieri
spettanti. Quindi, esaurito l'arco dei 180 giorni, il
lavoratore non e' piu' legittimato a pretendere l'indennita'
- 38 -
di malattia, pur non avendo ancora raggiunto il numero di 180
assegni giornalieri effettivi (103); e non importa che la
malattia continui oltre questo limite temporale e continui
l'erogazione delle prestazioni di carattere sanitario (104).
Non difettano, pero', decisioni che giungono al risultato di
attribuire ai lavoratori il diritto a 180 giornate effettive
di indennita', o sotto il profilo che essa spetti per tutti i
giorni di erogazione dell'assistenza sanitaria, anche se
festivi (105), o sotto il profilo che continui a spettare,
quanto meno, nei casi in cui la malattia si protragga oltre il
180 giorno (106).
Per il computo del periodo massimo di 180 giorni vigono
anche altri principi sui quali ci si deve soffermare.
In caso di malattia a cavallo di due anni solari, i giorni
indennizzati, ai fini del computo del periodo massimo debbono
essere imputati ai rispettivi esercizi finanziari (c.c. naz. 3
gennaio 1939, art. 14, 2 comma). Se, pero', il lavoratore,
per malattie a cavallo tra un anno e il successivo, abbia
conseguito l'indennita' continuativamente per il periodo
massimo previsto, non gli potra' essere corrisposta ulteriore
indennita' se non sia trascorso un periodo di ripresa
dell'attivita' lavorativa: a norma dell'art. 14, 3 comma,
c.c. naz. 3 gennaio 1939, precisamente, bisogna che tra la
guarigione e la nuova malattia siano trascorsi almeno 75
giorni in almeno 15 dei quali l'assistito abbia prestato
attivita' lavorativa; sennonche' l'INAM, con un suo
provvedimento interno certamente privo di qualsiasi efficacia
normativa (107), stabili' che fosse sufficiente la ripresa del
lavoro anche per un tempo minimo (magari per un solo giorno).
Con un altro provvedimento interno, altrettanto privo di
efficacia normativa, l'INAM stabili' che, per il computo di
180 giorni, non si dovesse tener conto delle giornate di
assistenza per le quali l'istituto avesse esperito utilmente
contro il terzo responsabile l'azione surrogatoria
assicurativa ex art. 1916 cod. civ.. Non e' facile capire
di diritto positivo.
Con l'entrata in vigore della L. 30 dicembre 1971, n.
1204, a tutela delle lavoratrici madri, non e' piu' chiaro se,
ai fini del computo dei 180 giorni, si debba continuare a non
- 39 -
tener conto delle malattie connesse con lo stato di
gravidanza. Nell'art. 17 L. 26 agosto 1950, n. 860, c'era una
norma molto chiara la quale stabiliva che "i periodi di
malattia determinata da gravidanza e puerperio non sono
computabili agli effetti della durata prevista da leggi, da
regolamenti o da contratti per il trattamento normale di
malattia". La nuova L. 30 dicembre 1971, n. 1204, nulla dice
al riguardo, ma l'art. 33 dichiara abrogate le disposizioni
della precedente normativa "in contrasto con le norme della
presente legge" (quindi, non tutte le disposizioni
precedenti): e appare chiaro che la norma sopra riportata, se
non era in contrasto con alcun'altra norma della L. n. 860 del
1950, non lo e' nemmeno con le disposizioni della L. n. 1204
del 1971. Sennonche', l'art. 20 del regolamento per la sua
attuazione, approvato con DPR 26 novembre 1976, n. 1026,
dichiara non computabili, "agli effetti della durata
prevista....per il trattamento normale di malattia, i periodi
di assistenza sanitaria per malattia determinata da
gravidanza": e la specificazione di assistenza "sanitaria"
dovrebbe avere una portata limitativa. Ma si poteva con un
regolamento esecutivo modificare restrittivamente la portata
di una norma primaria? Non e' pensabile, in base ai principi
sulla gerarchia delle fonti.
La compatibilita' con i principi della Costituzione della
normativa in tema di limitazioni temporali del diritto
all'assistenza di malattia, e' stata sottoposta alla Corte
Costituzione (108), che, pero', ha dichiarato la questione
manifestamente infondata con una sbrigativa ordinanza che si
limita a richiamare precedenti pronunce nel senso che la L. 11
gennaio 1943, n. 138, non ha recepito i contratti collettivi
di lavoro (109).
15. Prescrizione estintiva. - Al diritto all'indennita' e'
applicabile la prescrizione annuale prevista, per le
prestazioni di malattia in genere, dall'art. 6 ult. cpv., L.
11 gennaio 1943, n. 138 (110). E non ci dovrebbe essere dubbio
che questa prescrizione breve vale anche nei casi in cui
l'indennita' e' anticipata per legge dal datore di lavoro,
giacche' esso la anticipa sempre per conto dell'INPS, che e'
l'ente al quale la prestazione fa carico in definitiva. Come
per molte norme limitative dei diritti dei lavoratori, anche
per quella sopra citata si e' provato a sollevare questione di
costituzionalita' per preteso contrasto con l'art. 38, 2
comma, Cost.; ma bene e' stata ritenuta la questione
- 40 -
manifestamente infondata, sotto il profilo che l'art. 6 L. n.
138 del 1943 da' al lavoratore tempo piu' che sufficiente per
far valere il suo diritto e, quindi, attua e non elude il
precetto costituzionale (111).
Per quanto riguarda la decorrenza, e' da tener presente il
principio generale secondo cui "la prescrizione comincia a
decorrere dal giorno in cui il diritto puo' essere fatto
valere" (cod. civ. art. 2935): quindi, l'anno decorre dal
primo giorno (incluso) nel quale il lavoratore puo' pretendere
il pagamento dell'indennita'. Dati i collegamenti con la
questione del termine per il pagamento dell'indennita' da
parte dell'Istituto, anche la disciplina della decorrenza
della prescrizione e' differenziata a seconda che si tratti di
lavoratori a cui la prestazione deve essere anticipata dal
datore di lavoro, o di lavoratori a cui va liquidata
direttamente dall'INPS. Per i primi, dal giorno in cui, a
norma dei contratti collettivi, si possono pretendere
anticipazioni durante la malattia, decorre la prescrizione del
diritto alle singole anticipazioni (e qui si possono avere
differenziazioni ulteriori per le varie categorie, se i vari
contratti collettivi procedono ciascuno per conto suo nel
fissare i termini per le anticipazioni); dal giorno in cui il
lavoratore puo' pretendere la retribuzione per il periodo di
paga durante il quale ha ripreso l'attivita' lavorativa,
decorre la prescrizione del diritto al conguaglio. Per i
lavoratori ai quali l'indennita' deve essere corrisposta
direttamente dall'INPS, si precrive il diritto alle singole
rate settimanali con decorrenza dell'anno dal giorno
successivo a quello finale di ogni settimana (112).
Nel periodo in cui alcune ditte anticipavano l'indennita'
per conto dell'INAM in regime convenzionale, sorse il problema
circa il termine di prescrizione applicabile e la decorrenza,
quando la ditta, dopo aver provveduto a pagare l'indennita',
si trovava di fronte a una contestazione sollevata
dall'Istituto e recuperava la somma anticipata al proprio
dipendente o lo avvertiva che avrebbe proceduto al suo
recupero. Un caso del genere fu risolto dal Pretore di Taranto
nel senso che alla prescrizione breve non si sostituiva quella
ordinaria decennale: rimaneva applicabile la prescrizione
annuale, con decorrenza, pero', dal giorno in cui il datore di
lavoro aveva comunicato al dipendente il proprio intendimento
di recuperare la somma anticipata (113). Non c'e' motivo per
escludere che questa soluzione sia pplicabile anche al regime
- 41 -
legale di anticipazione da parte dei datori di lavoro,
conseguente al D.L. 30 dicembre 1979, n. 663.
Quanto all'interruzione della prescrizione, in materia di
indennita' di malattia c'e' da dire, di particolare, che essa
e' operata ad ogni effetto anche da richieste scritte
inoltrate per il lavoratore da un ente di patronato (114), e
che, in caso di ricorso amministrativo precontenzioso,
l'effetto interruttivo e' istantaneo, come se si trattasse di
una comune richiesta scritta di pagamento dell'indennita': con
la conseguenza che il termine annuale di prescrizione
ricomincia a decorrere dal giorno successivo a quello di
presentazione del ricorso all'Istituto e non rimane sospeso
per tutto il tempo della sua pendenza (115). Come, infatti,
vedremo meglio "infra", e' sostenibile che nella nostra
materia il ricorso amministrativo precontenzioso e'
facoltativo, cioe' l'assistito puo' adire le vie legali senza
aver proposto ricorso amministrativo o, dopo averlo proposto,
senza attenderne l'esito.
Appare utile chiudere l'argomento trattando della
prescrizione applicabile nei rapporti fra datore di lavoro e
Istituto: si tratta di stabilire entro quanto tempo il datore
di lavoro che, in applicazione dell'art. 1 D.L. 30 dicembre
1979, n. 663, ha anticipato l'indennita' al dipendente, deve
chiedere all'Istituto il rimborso del "tantumdem" per non
trovarsi di fronte a una fondata eccezione di prescrizione.
Non sembra che sia applicabile la stessa prescrizione annuale
di cui all'art. 6 ult. cpv. L. 11 gennaio 1943, n. 138,
ponendosi questa come norma eccezionale rispetto all'art. 2946
cod. civ. e non essendo, percio', suscettibile di applicazione
analogica. E siccome essa riguarda l'azione del lavoratore
contro l'Istituto per il conseguimento della prestazione, e'
da escludere che si adatti all'azione - ben diversa - del
datore di lavoro, che ha anticipato la prestazione, contro
l'Istituto per il recupero del relativo ammontare: trattasi di
una comune azione di rimborso, a cui appare applicabile la
prescrizione ordinaria decennale.
INDENNITA' DI MATERNITA'.
1. Fonti. - La fonte normativa principale in materia di
indennita' di maternita' e' costituita dalla L. 30 dicembre
1971, n. 1204 ("tutela delle lavoratrici madri"), integrata
dal relativo regolamento di esecuzione approvato con DPR 25
- 42 -
novembre 1976, n. 1026. Come si e' gia' avuto modo di far
presente, l'entrata in vigore della L. n. 1204 cit. non ha
comportato l'abrogazione della normativa precedente, giacche'
l'art. 33 dichiara abrogate le sole disposizioni " in
contrasto con le nrome della presente legge" (116): quindi,
vigono tuttora alcune disposiizoni della L. 26 agosto 1950, n.
860, e successive modificazioni, pur risultando tutt'altro che
agevole identificarle. Alcune norme in materia sono anche
contenute in fonti diverse, come il DPR 31 dicembre 1971, n.
1403, per le addette ai servizi domestici e familiari, la L.
18 dicembre 1973, n. 877, per le lavoratrici a domicilio, e la
L. 9 dicembre 1977, n. 903 ("parita' di trattamento tra uomini
e donne in materia di lavoro").
E', poi, da tener presente che la L. n. 1204 del 1971 -
come, del resto, faceva la L. n. 860 del 1950 - a proposito
dell'indennita' di maternita' opera un rinvio alle
disposizioni che concernono l'indennita' di malattia,
stabilendo testualmente, al 3 comma dell'art. 15, che "le
indennita' di cui ai commi precedenti sono corrisposte con gli
stessi criteri previsti per la erogazione delle prestazioni
dell'assicurazione obbligatoria contro le malattie" (117).
Attraverso questo strumento, per quanto non previsto
espressamente dalle leggi che si riferiscono alle lavoratrici
madri, le prestazioni di maternita' sono disciplinate dalle
leggi che concernono l'assicurazione di malattia e, in
particolare, dalla L. 11 gennaio 1943, n. 138, e dai contratti
collettivi corporativi, che fanno parte integrante di essa ai
sensi dell'art. 6, 4 comma. La norma di rinvio sopra
riportata si presta a qualche dubbio, in quanto l'espressione
"con gli stessi criteri" non e' proprio chiaro se si riferisca
alle sole disposizioni in materia di assicurazione di malattia
che riguardano le modalita' pratiche per l'erogazione
dell'indennita', o comprenda anche le disposizioni attributive
del diritto alla prestazione medesima. La giurisprudenza, al
riguardo, e' oscillante, in quanto ora decide nel primo senso
(118), ora stabilisce che, siccome l'assicurazione di
maternita' e' una "species" o una forma particolare
dell'assicurazione obbligatoria contro le malattie, il rinvio
riguarda, salve espresse disposizioni particolari, anche gli
stessi presupposti per l'esistenza del diritto all'indennita'
(119). In effetti, non e' facilmente contestabile che la L. n.
138 del 1943, pur parlando solitamente di assistenza dei
lavoratori e dei loro familiari in caso di "malattia", si
riferisce anche all'assistenza in favore delle lavoratrici
- 43 -
gestanti e puerpere: basti considerare che fra le assistenze
da erogarsi dall'INAM prevedeva l'assistenza "ostetrica" (art.
6, 1 comma, n. 5). Del resto, alcune delle stesse sentenze
che parlano di disciplina legislativa unitaria dal punto di
vista della procedura volta a conseguire l'indennita', poi
giungono a risultati coerenti con il principio opposto, come
quando subordinano il diritto all'indennita' di maternita'
della lavoratrice agricola all'iscrizione negli elenchi
nominativi (120), o quando assoggettano tale diritto alla
prescrizione annuale (121). Insomma, benche' la gravidanza e
puerperio sia un fatto generalmente fisiologico, laddove la
malattia e' un fatto sempre patologico, si puo' ben dire che,
ai fini assicurativi, trattasi di due diversi aspetti di un
unico evento assicurato. Questo, come si vedra' man mano che
se ne sara' presentata l'occasione, facilita molto l'esame
della materia.
2. Aventi diritto. - La cerchia delle lavoratrici aventi
diritto all'indennita' di maternita', e' piu' ampia di quelle
a cui e' corrisposta l'indennita' di malattia. Vi ha diritto,
infatti, la generalita' delle lavoratrici che prestano la loro
opera alle dipendenze di datori di lavoro privati, comprese le
apprendiste, le impiegate dell'industria, le mezzadre, le
colone (senza limitazione alcuna alle piccole colone), le
addette ai servizi domestici e familiari e le dipendenti da
societa' cooperative ancorche' socie delle stesse.
Alle dipendenti da datori di lavoro privati sono da
assimilare le dipendenti dalle Amministrazioni statali con
contratto di diritto privato.
Entro certi limiti e a certe condizioni, il diritto
all'indennita' di maternita' e' estensibile alle lavoratrici
madri adottive, o affidatarie di minori, e al padre; ma di
cio' si parlera' meglio piu' in la', in un paragrafo apposito.
Per ora, e' sufficiente questo accenno.
3. Insorgenza del diritto. - Anche il diritto all'indennita'
di maternita', come quello all'indennita' di malattia, puo'
essere inteso in due sensi diversi: in quello di posizione
soggettiva attiva che consente alla lavoratrice di pretendere
l'indennita' in caso di gravidanza e puerperio che
eventualmente si verifichi in futuro, e nel senso di
possibilita' di pretendere l'erogazione in concreto della
prestazione per una gravidanza in atto.
- 44 -
Inteso il diritto nel primo senso, la sua insorgenza non
dovrebbe far sorgere problemi particolari rispetto a quel che
avviene in materia di indennita' di malattia. Sennonche', la
giurisprudenza continua ad arrovellarsi sull'insorgenza del
diritto all'indennita' di maternita' in favore delle
lavoratrici agricole, controvertendosi se valga anche qui,
oppure no, l'eccezione al principio dell'automatismo derivante
dall'art. 4 D. Lgs. Lgt. 9 aprile 1946, n. 212, in forza del
quale l'acquisto del diritto alle prestazioni
dell'assicurazione di malattia e' subordinato all'iscrizione
negli elenchi nominativi o al rilascio di un certificato
provvisorio comprovante il possesso dei requisiti per
l'iscrizione.
La questione era stata dibattuta gia' sotto l'impero della
L. 26 agosto 1950, n. 860, che nulla diceva al riguardo, salvo
il generico rinvio, di cui si e' detto, alla disciplina
concernente l'indennita' di malattia, mentre il requisito
dell'iscrizione negli elenchi nominativi o del rilascio del
certificato provvisorio era previsto dall'art. 31 del
regolamento di attuazione approvato con DPR 21 maggio 1953, n.
568. Non trattandosi di norma primaria, essa lasciava aperta
la questione se, ai fini del diritto all'indennita' di
maternita' l'iscrizione negli elenchi e il rilascio del
certificato provvisorio avessero efficacia costitutiva, come
decisero alcune sentenze (122), o soltanto efficacia
dichiarativa, come decisero altre (123). Con l'entrata in
vigore della L. 30 dicembre 1971, n. 1204, di diverso c'e'
solo questo: che l'art. 15, al 3 comma, contiene una norma
nuova, in forza della quale le indennita' previste in favore
delle lavoratrici gestanti e puerpere "non sono subordinate a
particolari requisiti contributivi o di anzianita'
assicurativa". Quanto al resto, la legge - al pari della
precedente - nulla dice; mentre il requisito dell'iscrizione
negli elenchi nominativi o del rilascio del certificato
provvisorio e' previsto, all'art. 13, dal regolamento di
esecuzione approvato con DRP 26 novembre 1976, n. 1026. La
nuova norma sopra riportata non appare influente sulla
risoluzione nell'uno o nell'altro senso della questione in
esame: essa ha inteso soltanto derogare ad ogni precedente
disposizione che subordinasse l'acquisto del diritto alle
prestazioni a un periodo minimo di anzianita' assicurativa e
contributiva e, quindi, a proposito della questione in esame,
sarebbe innovativa unicamente se per le lavoratrici agricole
- 45 -
si richiedesse non soltanto l'iscrizione negli elenchi o il
rilascio del certificato provvisorio, ma anche il decorso di
un periodo minimo dall'avvenuta iscrizione negli elenchi o
dall'avvenuto rilascio del certificato. La questione, percio',
dovrebbe continuare a porsi negli stessi termini di prima.
Quanto all'orientamento della giurisprudenza per il
periodo successivo all'entrata in vigore della nuova legge, si
puo' dire che prevale la tesi dell'efficacia costitutiva,
accolta dalla Cassazione (124), benche' non manchino decisioni
di merito secondo cui l'efficacia non soltanto sarebbe
dichiarativa, ma retroagirebbe all'inizio della prestazione
del lavoro (125).
Nulla di particolare c'e' da dire, rispetto a quel che si
e' visto a proposito dell'indennita' di malattia, per quanto
riguarda la decorrenza, ai fini del diritto delle agricole
all'indennita' di maternita', dell'iscrizione negli elenchi o
del rilascio del certificato provvisorio.
Un'eccezione al principio dell'automatismo e'
espressamente prevista dalla legge per le addette a servizi
domestici e familiari o a servizi di riassetto e pulizia di
locali, per cui l'art. 4 DPR 31 dicembre 1971, n. 1403,
richiede che, all'inizio dell'interdizione obbligatoria,
risultino versati o, quanto meno, dovuti 52 contributi
settimanali nei 24 mesi precedenti, oppure 26 contributi
settimanali nei 12 mesi precedenti.
Quanto all'acquisto del diritto all'indennita' di cui ci
si sta occupando, nel senso di possibilita' di pretendere
l'erogazione in concreto della prestazione per una maternita'
in atto, e' da tener presente che il rischio protetto dalla
legge consiste nell'incapacita' lavorativa prevista con
presunzione "iuris et de iure" per tutto il periodo per il
quale, prima e dopo il parto, e' stabilita l'astensione
obbligatoria dal lavoro: quindi, le condizioni per
l'attuazione del diritto debbono sussistere al momento
iniziale del suddetto periodo (126). Al riguardo, l'art. 17 L.
n. 1204 del 1971 non richiede altro, in linea di principio, se
non che la gestante abbia in atto un rapporto di lavoro con la
corresponsione del relativo salario. La norma e' implicita nei
vari commi dell'articolo, mentre nella legislazione precedente
c'era una enunciazione espressa nel medesimo senso, contenuta
nell'art. 26 reg. di esecuzione approvato con DPR 21 maggio
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1953, n. 568, che si ricollegava all'art. 17 L. 26 agosto
1950, n. 860.
Anche per l'acquisto del diritto all'indennita' di
maternita' e' sostenibile che, all'inizio del periodo di
interdizione obbligatoria, la gestante non solo deve essere
titolare del rapporto di lavoro, ma deve anche prestare
effettivamente, sia pure da un tempo minimo, l'attivita'
lavorativa retribuita. Anche a voler prescindere dal rinvio
che l'art. 15, 3 comma, L. n. 1204 del 1971 fa ai criteri che
riguardano l'indennita' di malattia, si puo' argomentare dal
2 comma dell'art. 17 L. cit.: esso, prevedendo
eccezionalmente un periodo di protezione o copertura
assicurativa per le lavoratrici che siano, da non oltre
sessanta giorni, sospese o assenti dal lavoro senza
retribuzione ovvero disoccupate, presuppone la regola nel
senso della spettanza della prestazione in favore delle sole
gestanti che si trovino in costanza di attivita' lavorativa
retribuita.
4. Condizioni per l'acquisto del diritto. Rinvio per l'assenza
facoltativa. - Le condizioni per l'acquisto del diritto
all'indennita' di maternita' vanno esaminate distintamente per
il periodo di interdizione obbligatoria e per quello di
assenza facoltativa. Occorre occuparci subito di quelle
concernenti il primo periodo, mentre per le altre conviene
rinviare al paragrafo sull'assenza facoltativa.
Anteriormente all'inizio del periodo di interdizione
obbligatoria, la lavoratrice gestante deve consegnare
all'Istituto - ed anche al datore di lavoro - il certificato
medico di gravidanza (art. 28 L. n. 1204), redatto secondo le
prescrizioni di cui all'art. 14 del reg. di esecuzione.
L'elemento fondamentale e' la data presunta del parto, che "fa
stato nonostante qualsiasi errore di previsione" (art. 28
cit.). Per la presentazione del certificato medico di
gravidanza non e' previsto un termine a pena di decadenza:
sicche', in qualunque tempo esso sia presentato, non si puo'
negare, solo per questo, alla lavoratrice l'indennita' di
maternita'.
Condizione imprescindibile e' invece, in via di principio,
che all'inizio del periodo di interdizione obbligatoria la
gestante abbia in atto un rapporto di lavoro, con la
percezione del relativo salario. E trattasi di condizione
- 47 -
necessaria e sufficiente, giacche' la risoluzione del rapporto
di lavoro che si verifichi dopo l'inizio del periodo di
interdizione obbligatoria, non incide sul diritto
all'indennita' per l'intero periodo, salvo il caso di
risoluzione per colpa grave da parte della lavoratrice (art.
17, 1 comma, L. n. 1204). Non si puo' riconoscere il diritto
all'indennita' alla lavoratrice che, disoccupata da oltre 60
giorni all'inizio del periodo di interdizione obbligatoria,
abbia instaurato un rapporto di lavoro nel corso di tale
periodo; tuttavia, qualche sentenza di merito ha deciso in
senso difforme (127). Per le lavoratrici agricole, all'inizio
del suddetto periodo, occorre l'iscrizione negli elenchi
nominativi o il certificato provvisorio: sembrerebbe ovvio che
la lavoratrice non possa, ai fini dell'acquisizione del
diritto, completare il numero minimo di 51 giornate nel corso
del periodo di interdizione obbligatoria; tuttavia, alcune
sentenze di merito hanno deciso in senso difforme (128), in
contrasto con gli insegnameneti della Corte di Cassazione,
secondo cui "per il settore agricolo... perche' possa parlarsi
di soggetto assicurato, come tale soltanto avente diritto alla
prestazione assicurativa, e' necessario che la lavotraice
abbia compiuto un minimo di attivita' lavorativa, quanto meno
di 51 giornate, e per conseguenza risulti iscritta negli
appositi elenchi agricoli" (129).
Sotto l'impero della L. n. 860 del 1950 si presento' il
caso di una lavoratrice che, stando alla data presunta del
parto indicata nel certificato medico di gravidanza, non
avrebbe avuto diritto all'indennita' di maternita' perche'
assunta al lavoro dopo l'inizio dell'interdizione
obbligatoria, laddove la data effettiva del parto risulto'
posteriore di ben 41 giorni rispetto a quella presunta e,
senza questo scarto, l'instaurazione del rapporto di lavoro
sarebbe risultata anteriore all'inizio dell'interdizione
obbligatoria. L'INAM, rifacendosi all'art. 31 L. n. 860,
secondo cui l'individuazione della data presunta del parto
contenuta nel certificato medico di gravidanza fa stato
nonostante qualsiasi errore di previsione, escluse il diritto
all'indennita'; ma il giudizio promosso dal coniuge superstite
della lavoratrice si concluse in tutti e tre i gradi in senso
sfavorevole all'INAM. E' da richiamare il principio enunciato
dalla Cassazione, secondo cui la norma ha la portata pratica
unicamente "di evitare contestazioni sul periodo di assenza
obbligatoria dal lavoro cui corrisponde la tutela
assicurativa", mentre non e' "concepibile che si estenda ad
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eliminare il fatto accertato e incontroverso che la
lavoratrice sia stata effettivamente assunta al lavoro in un
determinato giorno (antecedente al sesto mese di
gravidanza)... e cioe' prima che si verificasse il rischio
coperto dall'assicurazione" (130). La questione non ha perduto
attualita', giacche' anche per la L. n. 1204 del 1971 la data
presunta del parto "fa stato, nonostante qualsiasi errore di
previsione" (art. 28).
L'esigenza, per il diritto all'indennita', che la
lavoratrice abbia in atto un rapporto di lavoro retribuito
implica che essa, in conseguenza della gravidanza e puerperio,
debba sospendere, per il periodo di astensione obbligatoria,
l'attivita' lavorativa e perdere la relativa retribuzione. Ne
discendono certe conseguenze. Cosi', qualora, ancorche' non
fosse sopravvenuta la gravidanza, la lavoratrice, per la
posizione in cui si trovava, non avrebbe dovuto e inteso
prestare un lavoro e non avrebbe percepito un salario, non le
puo' essere riconosciuto il diritto all'indennita'. La
questione si e' posta per la lavoratrice che, durante il
periodo di interdizione obbligatoria, sia in aspettativa senza
retribuzione perche' chiamata a ricoprire cariche sindacali,
ai sensi dell'art. 31 L. 20 maggio 1970, n. 300; e bene e'
stato escluso il diritto all'indennita' (131). Allo stesso
risultato si e' pervenuti nella fattispecie della gestante
addetta a lavorazioni stagionali per la quale l'interdizione
obbligatoria ricada in periodo di sospensione contrattuale per
chiusura stagionale dell'azienda (132).
Altra conseguenza del principio sopra enunciato: qualora
la lavoratrice, pur potendo usufruire dell'astensione
obbligatoria - com'e' suo diritto, ma non obbligo -, abbia
continuato a prestare attivita' lavorativa retribuita, non le
sara' corrisposta l'indennita' per le giornate in cui essa ha
lavorato, non essendo ovviamente ammesso il cumulo fra
indennita' di maternita' e retribuzione (133) (in questo
senso, del resto, si ha una disposizione esplicita, contenuta
nell'art. 22, 1 comma, reg. esec.).
5. Periodo indennizzabile: astensione obbligatoria e
astensione anticipata. - Il periodo per il quale e' dovuta
alla lavoratrice l'indennita' di maternita' e' predeterminato
per legge (art. 15 L. n. 1204 del 1971) e coincide con quello
di divieto, per la ditta, di adibire al lavoro la dipendente
gestante e puerpera (art. 4 L. cit.), cioe': a) "i due mesi
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precedenti la data presunta del parto"; b) in caso di data
presunta anteriore a quella in cui l'evento abbia
effettivamente avuto luogo, il periodo intercorrente fra le
due date; c) "i tre mesi dopo il parto". Nei casi indicati
dall'art. 5, l'Ispettorato del lavoro puo' disporre ad ogni
effetto, sulla base di accertamento medico, l'inizio
anticipato dell'interdizione obbligatoria: cioe', se la
gestazione sia caratterizzata da gravi complicanze o possa
aggravare preesistenti forme morbose; se le condizioni di
lavoro o ambientali appaiano pregiudizievoli alla salute della
gestante o della creatura; se la gestante sia addetta al
trasporto e al sollevamento di pesi o a lavori pericolosi,
faticosi e insalubri e non possa essere spostata ad altre
mansioni.
La determinazione del periodo di astensione obbligatoria,
cioe' la fissazione del giorno in cui ha inizio e di quello in
cui termina, sembrerebbe un'operazione di estrema semplicita';
eppure non mancano dei dubbi al riguardo: basti dire che
l'INAM sosteneva che il giorno effettivo del parto fosse il
primo (incluso) del periodo di astensione obbligatoria "post
partum". E quel che e' piu' strano e' che questa tesi fu
accolta da una, sia pure isolata, sentenza di merito (134). La
Cassazione, rettamente, ha stabilito che il suddetto periodo
decorre dal giorno successivo a quello del parto (135); ma non
e' stata chiara riguardo al periodo "ante partum", osservando
testualmente che la doglianza mossa dall'INAM contro la
sentenza di appello "e' priva di fondamento, essendo il
prodotto di una inesatta premessa: quella, cioe', che il
giorno del parto non sia compreso, quale termine finale, nel
periodo di cui alla lettera a) o - "secundum quod plerumque
accidit" - nel periodo di cui alla lettera b) dell'art. 4....
l'impugnata sentenza ha con corretto procedimento ermeneutico,
considerato tutti e tre i periodi di astensione obbligatoria
legislativamente imposti, ed e' pervenuta alla conclusione che
il giorno del parto non poteva essere incluso se non nel primo
periodo, ove coincidente con la data presunta, ovvero nel
secondo periodo, in quanto coincidente con la data effettiva"
(136). Ove si voglia dire - come sembra - che, se la data
presunta coincide con quella in cui il parto effettivamente ha
luogo, essa e' assorbita dal periodo di interdizione "ante
partum", si dovrebbe fissare l'inizio dell'interdizione
obbligatoria contando a ritroso due mesi esatti a partire dal
giono (incluso) previsto per il parto (137). Ma si puo'
osservare che, siccome la legge parla dei "due mesi precedenti
la data presunta del parto", questa data dovrebbe rimanere al
di fuori del periodo di due mesi.
- 50 -
6. Periodo indennizzabile: segue. Astensione facoltativa. -
Trascorso il periodo di interdizione obbligatoria "post
partum", la lavoratrice si puo' valere della facolta' di
assentarsi dal lavoro "per un periodo, entro il primo anno di
vita del bambino, di sei mesi" (art. 7 L. n. 1204), durante il
quale ha diritto a un'indennita' di maternita', benche' in
misura ridotta rispetto a quella relativa al periodo di
interdizione obbligatoria. A tal fine, e' sufficiente che la
lavoratrice comunichi il proprio intendimento di valersi della
facolta' all'Istituto - e al datore di lavoro -, precisando il
periodo dell'assenza (art. 8 reg. esec.).
Condizioni per il godimento dell'assenza facoltativa sono
che il rapporto di lavoro retribuito sia in atto, e non sia
altrimenti sospeso, per tutto il periodo di assenza e che il
bambino non soltanto sia vivo, ma non abbia superato un anno
di eta'. La necessita' della prima condizione non e' pacifica,
in quanto, secondo alcune sentenze, sarebbe sufficiente
l'esistenza ed operativita' del rapporto di lavoro all'inizio
del periodo di assenza (138). Sennonche', non ha senso la
facolta' di astenersi da un'attivita' lavorativa che in nessun
caso si sarebbe potuta prestare, non essendovi in atto un
rapporto di lavoro: senza dire che se ne ha una conferma nel
1 comma dell'art. 17 L. n. 1204, il quale, stabilendo che
l'indennita' relativa al periodo di interdizione obbligatoria
spetta anche in caso di risoluzione del rapporto di lavoro che
si verifichi nel corso di tale periodo, implicitamente esclude
che lo stesso criterio valga per l'indennita' relativa al
periodo di assenza facoltativa "post partum". In tal senso e'
orientata la giurisprudenza prevalente e piu' autorevole
(139).
L'applicazione di questo principio alle lavoratrici
agricole comporta che esse non hanno piu' diritto
all'indennita' per assenza facoltativa dal giorno successivo
alla loro cancellazione dagli elenchi.
La L. n. 1204 del 1971 non precisa se dell'assenza
facoltativa "post partum" la puerpera possa usufruire in piu'
soluzioni, mentre lo escludeva espressamente l'art. 20 del
regolamento di esecuzione della L. n. 860 del 1950. Era sorta
questione, conseguentemente, se, sotto l'impero della nuova
legge a tutela delle lavoratrici madri, il regime fosse sempre
quello dell'infrazionabilita'. La giurisprudenza di merito fu
- 51 -
univoca nel senso della possibilita' di frazionamento (140).
Quando la questione era stata sottoposta alla Corte Suprema,
e' stato emanato con DPR 26 novembre 1976, n. 1026, il
regolamento di esecuzione della L. n. 1204 del 1971, che
all'art. 9 prevede espressamente la frazionabilita'. Tutto si
riduceva, percio', a stabilire quale fosse il regime nel
periodo intermedio: al riguardo, la Cassazione ha pronunciato
due sentenze salomoniche con cui ha stabilito che, anche dopo
l'entrata in vigore della L. n. 1204, doveva continuare ad
applicarsi il regolamento di esecuzione della L. n. 860 del
1950 (quindi, infrazionabilita'); una volta emanato, pero', il
nuovo regolamento (che prevede la frazionabilita'), esso si
applica con decorrenza dalla data di entrata in vigore della
L. n. 1204, ma limitatamente ai casi non ancora definiti
(141).
Va da se' - ma, forse, non e' inutile precisarlo - che,
una volta che il bambino abbia compiuto un anno di eta', dal
giorno successivo la madre deve riprendere il lavoro, anche
se, eventualmente, non abbia completato i sei mesi di assenza
facoltativa.
7. Giornate indennizzabili. - Per quanto riguarda le giornate
indennizzabili comprese nei periodi di assenza dal lavoro per
gravidanza e puerperio, ben poco e' da aggiungere a quel che
si e' detto a proposito dell'indennita' di malattia.
L'indennita' di maternita' e' dovuta fin dal primo giorno
di assenza dal lavoro, non essendo prevista, a differenza che
per la malattia, la cosiddetta "carenza".
Avendo le due indennita' l'identica funzione di sopperire
dal lavoro, neanche l'indennita' di maternita' spetta per le
giornate festive. Si era provato a sostenere il contrario per
le lavoratrici del settore agricolo, che ordinariamente
presterebbero la loro attivita' anche nei giorni festivi
(142); ma la Cassazione ha deciso in senso opposto (143).
8. Riposi per allattamento. - L'art. 10 L. 1204 del 1971
obbliga il datore di lavoro a concedere alla dipendente,
durante il primo anno successivo al parto, due periodi di
riposo al giorno, anche cumulabili, per accudire al bambino, o
un solo riposo, in caso di giornata lavorativa di meno di sei
ore (1 comma). I riposi hanno la durata di un'ora ciascuno e
- 52 -
danno diritto alla lavoratrice di allontanarsi dall'azienda
(2 comma): ove, pero', il datore di lavoro abbia istituito
nei locali dell'azienda una camera di allattamento o un asilo
nido e la lavoratrice voglia usufruirne, i periodi di riposo
sono di mezz'ora ciascuno e non comportano un suo diritto di
allontanarsi (3 comma).
Ai sensi del 2 comma dell'art. 10 L. n. 1204, i riposi
per allattamento non davano diritto a indennita' di maternita'
da parte dell'istituto assicuratore. Invece, la L. 9 dicembre
1977, n. 903 ("parita' di trattamento tra uomini e donne in
materia di lavoro"), all'art. 8, ha previsto un'indennita' da
corrispondersi "dall'ente assicuratore di malattia presso il
quale la lavoratrice e' assicurata": quindi, per effetto del
D.L. 30 dicembre 1979, n. 663, dall'INPS.
9. Misura; interessi moratori; rivalutazione monetaria. - La
misura in cui spetta l'indennita' di maternita' e'
disciplinata in modo tutto particolare rispetto all'indennita'
di malattia, e differisce a seconda che si tratti del periodio
di interdizione obbligatoria, di quello di assenza facoltativa
"post partum" o dei c. d. riposi per allattamento.
Precisamente, per il periodo di interdizione obbligatoria e'
stabilito l'80% della retribuzione (art. 15, 1 comma, L. n.
1204); per il periodo di assenza facoltativa l'indennita'
spetta in misura pari al 30% (art. 15, 2 comma); invece, per
i riposi per allattamento e' dovuta alla lavoratrice un
importo pari alla retribuzione che le sarebbe stata
corrisposta dal datore di lavoro (art. 8, 1 comma, L. 9
dicembre 1977, n. 903). Il Pretore di Bologna ritenne che
l'art. 16 L. n. 1204 potesse essere in contrasto con la
costituzione nella parte in cui, per il periodo di assenza
facoltativa "post partum", prevede solo il 30% quale
indennita' di maternita', e, pertanto, sollevo' la questione
di costituzionalita' (144); ma la Corte Costituzionale e'
stata di diverso avviso ed ha pronunciato una sentenza di
rigetto (145).
Ai fini del calcolo dell'indennita' per i periodi di
interdizione obbligatoria e di assenza facoltativa, per
retribuzione si intende la media aritmetica giornaliera delle
somme percepite dalla lavoratrice, quale compenso per il
lavoro svolto, "nel periodo di paga quadrisettimanale o
mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel
corso del quale ha avuto inizio l'astensione obbligatoria dal
lavoro"
- 53 -
(art. 16, 1 comma): media da calcolare tenendo conto, per il
periodo di interdizione obbligatoria, del "rateo giornaliero
relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima
mensilita' e agli altri premi o mensilita' eventualmente
erogati alla lavoratrice", mentre per il periodo di assenza
facoltativa non se ne dovra' tener conto (art. 16, 2 comma).
La legge fa un riferimento fisso alla retribuzione
relativa al periodo di paga "scaduto ed immediatamente
precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio
l'astensione obbligatoria dal lavoro", ricalcando il disposto
dell'art. 18 L. n. 860 del 1950: e cio', a differenza da quel
che si e' osservato per l'indennita' di malattia alle pagg. 30
- 31. Ne e' stato dedotto che il parametro e' sempre quello,
ancorche' la gestante abbia continuato a lavorare per un certo
tempo dopo l'inizio del periodo di interdizione obbligatoria
(146), e ancorche' si tratti di astensione facoltativa "post
partum" che segua al periodo di interdizione obbligatoria dopo
un intervallo di ripresa del lavoro compensato con una
retribuzione superiore a quella di prima (147); ne' rileva il
fatto che durante i periodi di assenza dal lavoro per
gravidanza e puerperio la retribuzione possa essere aumentata
e senza che si ponga una questione di legittimita'
costituzionale (148). Invece, secondo il Pretore di Bologna,
l'art. 16 L. n. 1204, in quanto non prevede che l'indennita'
di maternita' sia commisurata agli aumenti retributivi che si
possano verificare durante l'assenza dal lavoro, potrebbe
essere in contrasto con gli artt. 3, 2 comma, e 37, 1 comma,
Cost. (149); ma la Corte Costituzionale e' stata di avviso
opposto, ritenendo che la determinazione della misura
dell'indennita' e' oggetto di una tipica scelta discrezionale
di politica legislativa (150).
Per le lavoratrici del settore agricolo, per le quali vige
il sistema della determinazione dei salari medi convenzionali
con decreti del Ministro del Lavoro, e' sorto lo stesso
problema della retroattivita' e del conguaglio, trattato a
proposito dell'indennita' di malattia; e anche qui, salvo
alcune sentenze di merito (151), la Cassazione e molti giudici
di merito hanno stabilito che i decreti ministeriali, una
volta emanati, retroagiscono fino all'inizio dell'anno di
riferimento e, quindi, comportano un conguaglio delle somme
gia' corrisposte per indennita' di maternita', da intendersi
quale acconto provvisorio (152).
- 54 -
Anche per quanto riguarda gli interessi moratori sulle
somme dovute per indennita' di maternita' e l'adeguamento
delle stesse in rapporto alla svalutazione della moneta,
sorgono i medesimi problemi gia' esaminati per l'indennita' di
malattia. Anche a proposito dell'indennita' di maternita' si
riconosce concordemente alla lavoratrice il diritto agli
interessi, essendo pero' incerta la loro decorrenza (153);
invece, il diritto alla rivalutazione monetaria e' escluso
dalla giurisprudenza piu' autorevole (154), mentre e'
riconosciuto solo da alcune sentenze di merito (155).
10. Modalita' di pagamento. - Per le modalita' di pagamento,
bisogna distinguere tra l'indennita' relativa ai periodi di
interdizione obbligatoria e di assenza facoltativa, da una
parte, e quella relativa ai riposi per allattamento,
dall'altra.
Quanto alla prima, le disposizioni in vigore non fanno
distinzione alcuna tra indennita' di malattia e indennita' di
maternita'. Quindi, vale quanto si e' detto a proposito della
prima: cioe', di regola, la corresponsione in favore della
lavoratrice gestante e puerpera e' eseguita mediante
anticipazione da parte del datore di lavoro, che poi mette a
conguaglio il relativo importo con quelli dei contributi e
delle altre somme dovute all'INPS; fanno eccezione le
lavoratrici delle categorie tassativamente previste dall'art.
1, 6 comma, D.L. 30 dicembre 1979, n. 663 (quale risulta
dall'art. 1 della legge di conversione 29 febbraio 1980, n.
33), alle quali l'indennita' e' corrisposta direttamente
dall'Istituto. Invece, l'indennita' relativa ai riposi per
allattamento e' sempre anticipata dal datore di lavoro (art.
8, 2 comma, L. 9 dicembre 1977, n. 903).
11. Termine per il pagamento. - Anche quanto al termine per il
pagamento, le disposizioni in vigore non distinguono tra
indennita' di malattia e indennita' di maternita'. Ci si
limita, quindi, a rinviare a quanto gia' detto a proposito
della prima.
E' solo da precisare che, nei casi in cui l'indennita' va
corrisposta direttamente dall'Istituto, appare sostenibile
che, attraverso il rinvio operato dall'art. 15, 3 comma, L.
n. 1204 del 1971, trovi applicazione l'art. 18 c.c. naz. 3
gennaio 1939: se e' cosi', anche l'indennita' di maternita',
al pari di quella di malattia, va corrisposta dall'Istituto a
rate settimanali posticipate.
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12. Cessazione del diritto; protezione o copertura
assicurativa. - Come per l'indennita' di malattia, cosi' anche
per l'indennita' di maternita' si puo' parlare di cessazione
del diritto in due sensi diversi: in quello di venir meno
della posizione soggettiva attiva in forza della quale la
lavoratrice poteva pretendere l'indennita' per i casi di
gravidanza e puerperio che, eventualmente, si sarebbero
verificati in futuro, e nel senso di venir meno della
possibilita' di pretendere la prestazione pur non essendo
ancora esaurito il previsto periodo di assenza dal lavoro per
gravidanza e puerperio.
Nel primo senso, la cessazione del diritto si verifica per
il venir meno, anche in via soltanto temporanea,
dell'attivita' lavorativa retribuita: licenziamento,
dimissioni o sospensione. La fattispecie della lavoratrice
posta in trattamento di integrazione salariale senza alcuna
prestazione di attivita' lavorativa ("a zero ore"), fa sorgere
una questione identica a quella esaminata a proposito
dell'indenita' di malattia, trattandosi anche qui di
stabilire, ai fini della conservazione del diritto, se ricorra
oppure non un'ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro.
Anche a questo proposito, la giurisprudenza e' divisa, ma si
puo' considerare prevalente la tesi della sussistenza della
sospensione, che e' quella accolta dalla Corte Suprema (156).
Per le lavoratrici agricole, se si ritiene che l'acquisto del
diritto sia connesso con l'iscrizione negli elenchi nominativi
o con il rilascio del certificato provvisorio da parte dello
SCAU, si deve coerentemente ricollegare la perdita del diritto
alla cancellazione dagli elenchi, allo scadere del periodo di
validita' degli stessi o al rilascio in via di urgenza, da
parte dello SCAU, di un certificato comprovante la perdita del
requisiti per l'iscrizione.
Anche per il diritto all'indennita' di maternita' e'
previsto un periodo di protezione o copertura assicurativa,
che ha una disciplina particolare rispetto a quella
concernente l'indennita' di malattia. La normativa e'
contenuta nell'art. 17 L. n. 1204 del 1971, il quale prevede
delle eccezioni al principio secondo cui per la sussistenza
del diritto occorre che, all'inizio del periodo di astensione
obbligatoria, la gestante abbia in atto un rapporto di lavoro
con la corresponsione della relativa retribuzione. La prima
eccezione e' prevista al 2 comma, che attribuice il diritto
- 56 -
all'indennita' anche alla lavoratrice sospesa, assente dal
lavoro senza retribuzione o disoccupata, "purche' tra l'inizio
della sospensione, dell'assenza o della disoccupazione e
quello di detto periodo non siano decorsi piu' di 60 giorni",
al netto delle giornate di assenza dovuta a malattia o ad
infortunio sul lavoro. Al 3 comma, l'eccezione viene ampliata
con la previsione del diritto anche in favore della
lavoratrice la quale, benche' disoccupata da oltre 60 giorni,
sia in godimento dell'indennita' di disoccupazione, nel qual
caso l'indennita' di maternita' assorbe quella ordinaria di
disoccupazione. Altro ampliamento dell'eccezione l'art. 17
prevede al 4 comma per la lavoratrice che, oltre ad essere
disoccupata da piu' di sessanta giorni, sia anche priva di
indennita' di disoccupazione per avere eseguito nell'ultimo
biennio lavorazioni alle dipendenze di terzi non soggette ad
assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione; e le
attribuice il diritto all'indennita' di maternita', a
condizione che, all'inizio del periodo di interdizione
obbligatoria, la risoluzione del rapporto di lavoro non
risalga ad oltre 180 giorni prima e, nell'ultimo biennio
anteriore al detto periodo, la lavoratrice abbia maturato
ventisei contributi settimanali ai fini dell'assicurazione
contro le malattie. Al 5 comma, infine, attribuisce il
diritto alla lavoratrice che, all'inizio dell'astensione
obbligatoria, si trovi sospesa dal lavoro da oltre sessanta
giorni, pero' usufruisce del trattamento di integrazione
salariale, nel qual caso prevede l'indennita' di maternita'
come assorbente il trattamento della Cassa Integrazione
Guadagni.
Dopo questa esposizione della situazione normativa,
vediamo quali questioni sorgono al riguardo in giurisprudenza
e come vengono risolte.
Dovrebbe essere ovvio che il fatto obiettivo, che,
all'inizio del periodo di interdizione obbligatoria, la
gestante sia, per qualsiasi causa, disoccupata o sospesa da
oltre 60 giorni, osta al suo diritto al trattamento economico
di maternita'. Eppure, una discutibile sentenza ha stabilito
il diritto all'indennita' in favore di una gestante rimasta
disoccupata per un fatto a lei non imputabile, quale il
fallimento dell'imprenditore, e che, essendo in stato avanzato
di gravidanza, non ne avrebbe potuto trovare un altro che
subito dopo le desse lavoro, ricorrendo per lei il periodo di
interdizione obbbligatoria (157); ed e' stato anche stabilito
- 57 -
il diritto all'indennita' in favore di una gestante assente
dal lavoro senza retribuzione da oltre 60 giorni per sciopero
e occupazione della fabbrica (158); ma, su appello dell'INAM,
la sentenza e' stata riformata (159).
La regola, enunciata nel 2 comma dell'art. 17 L. n. 1204
del 1971, secondo cui per il computo del termine ostativo di
60 giorni non vanno considerate le giornate di assenza dovuta
a malattia o ad inforutnio sul lavoro, sembrerebbe ovvio che
si debba intendere in senso conforme al criterio fissato dalla
giurisprudenza in relazione alla regola uguale, anche se
formulata meno chiaramente, di cui all'art. 26, cpv. reg. per
l'attuazione della L. n. 860 del 1950: cioe', dalle giornate
complessive di assenza anteriori all'inizio dell'interdizione
obbligatoria si enucleano quelle di assenza dovuta a malattia
o infortunio; se le rimanenti non eccedono il numero di 60, il
diritto spetta; se lo eccedono, non spetta (160). Eppure, per
quanto strano possa essere, alcune sentenze di merito hanno
enunciato il principio secondo cui l'assenza per malattia che
preceda immediatamente il periodo di astensione obbligatoria
va assimilata alla presenza al lavoro, sicche' il trattamento
economico di maternita' e' dovuto a prescindere dalla
posizione di lavoro in cui la gestante si possa essere trovata
prima di ammalarsi (161).
Si controverteva se il 2 comma dell'art. 17 consentisse
di non computare nel termine ostativo di 60 giorni non
soltanto le giornate di assenza dovuta a malattia o ad
infortunio sul lavoro, ma anche quelle di assenza facoltativa
in seguito a un parto precedente. La maggior parte delle
sentenze stabilirono che la norma lo consente (162), qualche
altra decise in senso opposto (163). Alcuni dei giudici che
non ritenevano consentita l'interpretazione favorevole alle
lavoratrici, sollevarono questione di legittimita'
costituzionale della norma in riferimento agli artt. 3, 31 e
37 Cost. (164); e la Corte Costituzionale ha emesso una
sentenza di accolgimento (165): dopo di che, la Cassazione ha
deciso in senso favorevole alle lavoratrici (166). La
questione, percio', e' ormai superata.
Alcune delle ordinanze che hanno sottoposto alla Corte
Costituzionale la questione ora esaminata, avevano ravvisato
un possibile contrasto dell'art. 17, 2 comma, L. n. 1204 del
1971 con i principi della Costituzione, anche in quanto esso
esclude che, nel computo del termine ostativo di 60 giorni,
- 58 -
non si debbano considerare le giornate di congedo
straordinario senza retribuzione (167), quelle di permesso
senza retribuzione per assistenza alla prole nata da un parto
precedente (168) e quelle di un periodo di aspettative senza
retribuzione per motivi di famiglia (169). Ma la Corte ha
riguarda l'assenza facoltativa in seguito a un parto
precedente (170).
E' sorta questione se il 3 comma dell'art. 17 consenta di
riconoscere il diritto all'indennita' di maternita' alla
lavoratrice che, all'inizio dell'interdizione obbligatoria,
abbia maturato il diritto all'indennita' di disoccupazione,
pero' non ne abbia il godimento attuale, come sembrerebbe che
la norma testualmente richieda: e, trattandosi di norma
eccezionale, essa dovrebbe essere di stretta interpretazione.
Tuttavia, la giurisprudenza, sotto il profilo che le norme
eccezionali, se non consentono l'applicazione analogica, sono
pero' suscettibili di interpretazione estensiva, ha stabilito
il diritto all'indennita' di maternita' (171); ma lo ha
escluso nell'ipotesi in cui la lavoratrice, oltre a non avere
il godimento attuale dell'indennita' di disoccupazione, non
possa piu' conseguirla per aver lasciato scadere a vuoto il
termine stabilito per inoltrare la relativa domanda (172) o,
peggio, manchi proprio dei requisiti di legge per poter
chiedere l'indennita' di disoccupazione (173). Il 3 comma
dell'art. 17, mentre all'inizio parla di "lavoratrice... in
godimento dell'indennita' di disoccupazione", poi prevede il
diritto all'indennita' di maternita" "anziche' all'indennita'
ordinaria di disoccupazione". Ne e' stata dedotta
l'inapplicabilita' della norma in caso di godimento del
trattamento speciale di disoccupazione, ed e' stato escluso
che, pur intesa in senso cosi' restrittivo, essa possa essere
in contrasto con la Costituzione (174).
Il 4 comma dell'art, 17, parlando di "lavoratrice... che
non e' in godimento dell'indennita' di disoccupazione perche'
nell'ultimo biennio ha effettuato lavorazioni alle dipendenze
di terzi non soggette all'obbligo dell'assicurazione contro la
disoccupazione", sembra riferirsi alla sola lavoratrice priva
di indennita' di disoccupazione perche', nell'ultimo biennio
anteriore all'inizio dell'interdizione obbligatoria, non
assicurata (o anche insufficientemente assicurata) contro la
disoccupazione per la natura oggettiva delle lavorazioni
svolte, quali quelle enumerate dal D.M. 27 marzo 1957 (175),
- 59 -
non per altri motivi, quali quelli che attengono alla
qualificazione soggettiva della singola lavoratrice: ossia, se
attengono alla qualificazione soggettiva della singola
lavoratrice: ossia, se impiegata od operaia, se operaia o
apprendista. Quindi, la norma non e' applicabile, ad es., a
colei che non e' stata assicurata contro la disoccupazione
unicamente per la sua qualificazione soggettiva di
apprendista, mentre vi erano soggette, di per se', le
lavorazioni svolte. Non e' rilevante, invece, la circostanza
che la lavoratrice non si sia trovata nella stessa posizione
durante l'intero biennio, ma sia stata per una parte soggetta
e per l'altra esclusa dall'assicurazione contro la
disoccupazione.
13. Prescrizione estintiva. - La L. 30 dicembre 1971, n. 1204,
cosi' come la precedente legge di tutela delle lavoratrici
madri, non prevede una particolare prescrizione del diritto al
trattamento economico di maternita'. Non risulta che dopo la
sua entrata in vigore si sia riproposto il problema del
termine di prescrzione applicabile: evidentemente, si
ritengono appaganti i risultati a cui pervenne la
giurisprudenza sotto l'impero della legge precedente.
Allora fu controverso se, nel silenzio della legge
speciale, la prescrizione applicabile fosse quella ordinaria
decennale ex art. 2946 cod. civ., o valesse pur sempre quella
breve di un anno ex art. 6, ult. comma, L. 11 gennaio 1943, n.
138. Nella giurisprudenza di merito si puo' dire che si
equilibravano le decisioni secondo cui si doveva applicare la
prescrizione ordinaria decennale, essendo quella ex art. 6 L.
n. 138 del 1943 una prescrizione speciale riferita alle sole
prestazioni previste dalla legge medesima, secondo la stessa
dizione testuale della norma (176), e le decisioni secondo cui
la prescrizione applicabile era, invece, quella annuale,
equiparando la legge l'assicurazione di maternita' a quella
contro le malattie ai fini della disciplina assicurativa
(177). La Corte di Cassazione decise univocamente piu' volte
nel senso dell'applicabilita' della prescrizione annuale,
anche perche' si prescriveva incontestabilmente in un anno il
diritto all'assistenza sanitaria di maternita' (L. n. 138 del
1943, art. 6, 1 comma, n. 5, in riferimento all'ult. comma),
e sarebbe stato assurdo ritenere che il diritto alle
prestazioni assicurative richieste dallo stesso evento fosse
soggetto, per alcune (prestazioni sanitarie), alla
prescrizione speciale di un anno e, per un'altra (prestazione
- 60 -
economica), alla prescrizione ordinaria decennale (178).
Quest'ultimo orientamento dovrebbe essere ormai definitivo.
14. Parto prematuro e aborto. - Qualora la gravidanza non si
concluda con un parto normale, ma vada soggetta a
interruzione, si ha, secondo i casi, l'evento del parto
prematuro o quello dell'aborto. La normativa in materia di
interruzione della gravidanza e' data dal combinato disposto
dell'art. 20 L. 30 dicembre 1971, n. 1204, e degli artt. 4 e
12 del regolamento per la sua attuazione, approvato con DPR 26
novembre 1976, n. 1026, ai sensi dei quali l'interruzione
della gravidanza, spontanea o terapeutica, e' considerata a
tutti gli effetti come aborto, da equipararsi alla malattia, o
come parto prematuro, da equipararsi al parto normale, a
seconda che si sia verificata prima o dopo il 180 giorno
dall'inizio della gestazione, presumendosi avvenuto il
concepimento 300 giorni prima della data presunta del parto
indicata nel certificato medico di gravidanza. La distinzione
ha conseguenze pratiche rilevantissime, giacche', se l'evento
si deve qualificare come aborto, dato che la legge lo equipara
alla malattia, la lavoratrice ha diritto di astenersi dal
lavoro solo per il tempo necessario al ripristino della
capacita' lavorativa e non puo' vantare altri diritti a
prestazioni previdenziali di natura economica fuori di quello
all'indennita' di malattia; se, invece, va qualificato come
parto prematuro, si deve applicare l'interdizione obbligatoria
"post parum", a prescindere dalla durata dell'incapacita'
lavorativa, e spetta alla lavoratrice il trattamento economico
di maternita', piu' favorevole di quello di malattia.
La vigente normativa e' quasi identica a quella abrogata:
l'unica differenza consiste nella presunzione del verificarsi
del concepimento 300 giorni prima della data presunta del
parto, che e' stata introdotta dal regolamento di esecuzione
della L. n. 1204. Pero' non sembra contestabile che essa
ammetta la prova contraria ("praesumptio iuris tantum"),
giacche' la presunzione assoluta ("iuris et de iure") richiede
una previsione esplicita in tal senso da parte di una norma
primaria. La differenza tra la normativa nuova e quella
abrogata, quindi, si puo' considerare irrilevante; ed e'
sempre attuale la questione, che la legge lasciava e continua
a lasciare insoluta, della qualificabilita' giuridica del
cosiddetto aborto "interno" - in cui, cioe', alla morte del
prodotto del concepimento non segua immediatamente la sua
espulsione dalla cavita' uterina -, quando l'espulsione
- 61 -
risulti a cavallo del 180 giorno dall'inizio della
gestazione. Si tratta di stabilire se, per qualificare
l'evento come aborto o come parto prematuro, si debba tener
conto dell'epoca della morte o della data dell'espulsione.
Sennonche', mentre l'espulsione del prodotto del concepimento
avviene in un momento storico ben preciso, nessuno e' in grado
di fissare con precisione quello della morte intrauterina. Per
dirimere ogni dubbio, la legge ben potrebbe adottare la data
dell'espulsione come quella sulla cui base procedere alla
qualificazione dell'evento; ma cio' comporterebbe una "fictio
iuris" nel senso della contemporaneita' della morte
all'espulsione, di cui non si rinviene traccia in alcuna
disposizione di diritto positivo, nemmeno nella norma
dell'art. 28 L. n. 1204 secondo cui "la data pesunta del
parto... indicata nel certificato (medico di gravidanza) fa
stato, nonostante qualsiasi errore di previsione": come si e'
gia' visto, tale indicazione non ha valore vincolante a tutti
gli effetti connessi con il sistema protettivo delle
lavoratrici gestanti e puerpere, ma serve solo a dirimere ogni
dubbio sull'inizio del periodo di interdizione obbligatoria e
non vale ogni qualvolta sia possibile sostituire un giudizio
di certezza, in base all'esame di precisi dati obiettivi, ad
una valutazione presuntiva risolventesi in un giudizio di
probabilita' (179).
Sotto questo profilo, la giurisprudenza prevalente e piu'
autorevole ha stabilito che, se il prodotto del concepimento
espulso, in base a rigorosi accertamenti obiettivi, risulti
morto quando non aveva ancora raggiunto i 180 giorni di
sviluppo, l'evento e' da qualificare come aborto, anche se
l'espulsione sia avvenuta successivamente al 180 giorno
(180). Non mancano sentenze di merito nel senso che la data
presunta del parto indicata nel certificato medico di
gravidanza ha valore vincolante anche al fine di stabilire
quanto tempo dopo l'inizio della gestazione si e' verificato
l'evento interruttivo e, quindi, se esso costituisca aborto o
parto prematuro (181). E si attende che sulla questione
specifica torni a pronunciarsi la Corte di Cassazione (182).
15. Rapporti con altri trattamenti previdenziali. - Per il 1
comma, 2 inciso, L. 30 dicembre 1971, n. 1204, l'indennita'
di maternita' per il periodo di interdizione obbligatoria "e'
comprensiva di ogni altra indennita' spettante per malattia".
Se ne deve dedurre che, in caso di concomitanza temporale tra
periodo di interdizione obbligatoria e malattia invalidante,
- 62 -
spetta alla lavoratrice il solo trattamento economico di
maternita', che assorbe ogni trattamento di malattia: e non
vanno fatte distinzioni a seconda che si tratti di malattia
generica o di malattia specifica, quali la tubercolosi o le
malattie professionali, ne' a seconda che la malattia insorga
nel corso del periodo di interdizione obbligatoria, o tale
periodo inizi quando la lavoratrice e' gia' ammalata. Stante
la "ratio" della L. n. 1204 del 1971, che e' quella di
concedere una tutela quanto piu' possibile favorevole alle
lavoratrici gestanti e puerpere, e' da ravvisare, sia pure
attraverso un'interpretazione estensiva della norma in esame,
la prevalenza del trattamento economico di maternita' anche
sull'indennita' giornaliera per inabilita' temporanea da
infortunio sul lavoro.
Invece, l'indennita' post-sanatoriale dovuta alla
lavoratrice colpita da tubercolosi ai sensi dell'art. 2 L. 14
dicembre 1970, n. 1088, e' chiaramente cumulabile con il
trattamento economico di maternita'. Essa, infatti, e' dovuta
"anche nel caso in cui l'assistito attenda a proficuo lavoro o
fruisca comunque dell'intera retribuzione" (art. 2, 2 comma,
L. n. 1088 cit.): quindi, a differenza del trattamento
economico per malattia in generale, serve non a sostituire il
salario perduto, ma a rafforzare la posizione economica del
lavoratore gia' colpito da tubercolosi, che, debilitato dalla
malattia, dopo la guarigione puo' vedersi costretto ad
accettare un lavoro meno impegnativo ed anche retribuito in
minor misura rispetto a quello che potrebbe svolgere in
condizioni normali.
La norma che stabilisce la prevalenza del trattamento
economico di maternita' rispetto ad "ogni altra indennita'
spettante per malattia", essendo collocata al 1 comma
dell'art. 15 L. n. 1204, che riguarda il solo trattamento
economico per il periodo di interdizione obbligatoria, e non
essendo ripetuta o, quanto meno, richiamata nel comma
successivo dell'articolo, e' estranea alla disciplina dei
rapporti fra trattamento economico di maternita' per
astensione facoltativa "post partum" e indennita' di malattia.
Qui vale un principio diverso: cioe', dato che la facolta' di
astensione dal lavoro implica la costanza di attivita'
lavorativa retribuita (183), l'assenza per malattia
invalidante e' incompatibile con l'esercizio della predetta
facolta': se la puerpera, al momento in cui dovrebbe iniziare
a godere dell'astensione facoltativa, e' gia' assente dal
lavoro
- 63 -
perche' ammalata (o infortunata), non puo' usufruirne, con
diritto alla relativa indennita', fino a quando perdura
l'incapacita' al lavoro provocata dalla malattia (o
dall'infortunio); mentre, se si ammala durante l'astensione
facoltativa, questa rimane sospesa e cosi' pure l'erogazione,
da parte dell'istituto assicuratore competente, della relativa
indennita'.
Per la stessa ragione suesposta, invece, l'indennita' di
maternita' per astensione facoltativa e' cumulabile con
l'indennita' post-sanatoriale.
16. Estensione della tutela alle lavoratrici madri adottive, o
affidatarie di minori, e al padre. - Sotto l'impero della L.
26 agosto 1950, n. 860, intitolata "tutela fisica ed economica
delle lavoratrici madri", non si dubitava che della tutela da
essa prevista beneficiassero le sole lavoratrici madri in
senso naturale e non anche le madri adottive o affidatarie di
minori. Invece, con l'entrata in vigore della L. 30 dicembre
1971, n. 1204, dal cui titolo e' scomparsa la specificazione
"fisica ed economica", che non contiene piu' la limitazione
espressa alle lavoratrici gestanti e puerpere ed ha introdotto
innovazioni migliorative dell'assistenza, e' sorta questione
se alcune delle sue norme protettive siano applicabili anche
alle lavoratrici che hanno adottato il bambino o lo hanno
ricevuto in affidamento preadottivo. Il discorso,
naturalmente, ha senso solo se riferito alle norme che non
sono palesemente dirette alla tutela fisica della lavoratrice
e, quindi, ancorate agli eventi fisiologici della gravidanza e
del parto: cioe', all'art. 4, limitatamente al 1 comma, lett.
c (astensione obbligatoria dal lavoro "post partum"); al 7, 1
comma (assenza facoltativa dopo il periodo dell'interdizione
obbligatoria) e 2 comma (assenza dal lavoro per le malattie
del bambino di eta' inferiore a tre anni); al 10 (riposi per
allattamento) e al 15, 1 e 2 comma (indennita' economica,
rispettivamente, per i periodi di interdizione obbligatoria e
di assenza facoltativa successiva alla prima).
Al riguardo, tranne pochissime sentenze le quali hanno
riferito la tutela prevista dalla L. n. 1204 alle sole madri
di sangue (184), tutte le altre che si sono occupate della
questione hanno ravvisato l'estensibilita' delle norme sopra
richiamate alle lavoratrici madri adottive o affidatarie di
minori (185) o, persino, che hanno avuto un bambino in
collocamento provvisorio (186).
- 64 -
Nel frattempo e' intervenuta la legge 9 dicembre 1977, n.
903, il cui art. 6 estende espressamente alle "lavoratrici che
abbiano adottato bambini o che li abbiano ottenuti in
affidamento preadottivo, ai sensi dell'articolo 314/20 del
codice civile", le seguenti norme della L. n. 1204 del 1971:
art. 4, lett. c (riguardante l'interdizione obbligatoria "post
partum"), con diritto al "trattamento economico relativo,
durante i primi tre mesi successivi all'effettivo ingresso del
bambino nella famiglia adottiva o affidataria", a condizione
che questi "non abbia superato al momento dell'adozione o
dell'affidamento i sei anni di eta'"; art. 7, 1 comma
(riguardante l'assenza facoltativa "post partum"), "entro un
anno dall'effettivo ingresso del bambino nella famiglia e
sempreche' il bambino non abbia superato i tre anni di eta'";
art. 7, 2 comma (diritto di assentarsi dal lavoro durante le
malattie del bambino di eta' inferiore a tre anni).
L'intervento apposito del legislatore sembrava che fosse
valso a por fine ai precedenti dubbi, giacche' dovrebbe essere
chiaro che le norme estensibili alle lavoratrici madri non di
sangue sono quelle sole indicate dall'art. 6 L. n. 903 del
1977, che la loro estensione e' subordinata alle condizioni
ivi previste e che le lavoratrici che si giovano
dell'estensione sono soltanto le madri adottive o che abbiano
che li hanno avuti in collocamento provvisorio, che e' un
istituto affatto diverso. Ma si vede che i dubbi permangono:
basti considerare che la Corte di Cassazione ha pronunciato
due sentenze a sezione singola (Lavoro), dicendo, nella prima,
che certe norme della L. n. 1204 sono di per se' estensibili
alle lavoratrici madri adottive o affidatarie, a prescindere
da un apposito intervento del legislatore (187), e nella
seconda, che l'estensione consegue unicamente alla L. n. 903
del 1977, avente carattere innovativo e non retroattivo (188);
la volta successiva in cui la stessa sezione singola avrebbe
dovuto pronunciarsi sulla questione specifica, preso atto del
contrasto fra i precedenti giudicati, ha rimesso la causa alle
sezioni unite, le quali, con una sentenza recentissima, hanno
stabilito l'inapplicabilita' della L. n. 1204 alle lavoratrici
che abbiano avuto un minore in collocamento provvisorio (189).
Si consideri ancora, fra l'altro, che, ove si prescinda
dall'intervento apposito del legislatore, la sussistenza nei
singoli casi concreti delle condizioni che debbono ricorrere
per l'applicabilita' non puo' che dipendere da valutazioni
soggettive e arbitrarie. Per citare qualche esempio, il
- 65 -
Pretore e il Tribunale di Milano avevano attribuito il diritto
all'assenza facoltativa a una lavoratrice che aveva adottato
un bambino di ben undici anni di eta' (190); ma l'art. 6 L. n.
903 del 1977 richiede, per l'esercizio della facolta' ex art.
7 L. n. 1204 del 1971, che "il bambino non abbia superato i
tre anni di eta'". Quindi, sulla base della L. n. 903 del
1977, si dovrebbe escludere un diritto che sarebbe stato,
invece, attribuito dalla L. n. 1204 del 1971! Ancora: con
l'ordinanza del 17 gennaio 1973 cit. sub nota 185 il Pretore
di Roma aveva ritenuto applicabile a una lavoratrice
affidataria l'art. 10 L. n. 1204 sui riposi per allattamento;
ma la norma non e' richiamata dalla L. n. 903 del 1977. E,
allora, "quid iuris"?.
Analoga a quella ora esaminata e' la questione di
stabilire l'estensibilita' di certe norme della L. n. 1204 al
padre lavoratore in vece della madre; e anch'essa si dovrebbe
considerare legislativamente risolta dalla L. 9 dicembre 1977,
n. 903. Il suo art. 7, infatti, estende al padre lavoratore,
anche apprendista e anche adottivo o affidatario (purche' non
sia lavoratore a domicilio o addetto ai servizi domestici e
familiari), "in alternativa alla madre lavoratrice ovvero
quando i figli siano affidati al solo padre", il diritto
all'assenza facoltativa "post partum", con la corresponsione
del relativo trattamento economico, e il diritto di assentarsi
dal lavoro durante le malattie del bambino di eta' inferiore a
tre anni; e' sufficiente che il padre consegni al proprio
datore di lavoro una dichiarazione da cui risulti la rinuncia
della genitrice a valersi dei diritti di cui trattasi e
inoltre, per l'assenza facoltativa "post partum", una
successiva dichiarazione del datore di lavoro della genitrice
comprovante l'avvenuta rinuncia e, per l'assenza per malattia
del bambino, un certificato medico che la attesti. Dovrebbe
essere del tutto incontrovertibile che l'estensione opera,
oltreche' dall'entrata in vigore della L. n. 903 del 1977,
anche entro i limiti e alle precise condizioni da essa
previste (191) sennonche', anche qui occorre adoperare il
condizionale ("dovrebbe" essere), perche' alcuni giudici di
merito procedono per conto loro, ravvisando l'estensibilita'
al padre lavoratore delle norme sull'assenza facoltativa
ancorche' la madre, per non essere lavoratrice dipendente, non
abbia un diritto suo proprio (192), oppure ritenendo
applicabili al padre anche le norme sull'interdizione
obbligatoria (193). E' da sperare che metta un po' di ordine
la Corte di Cassazione, a cui la questione e' stata
sottoposta.
- 66 -
QUESTIONI DI PROCEDURA.
1. Ricorso amministrativo precontenzioso. - L'art. 443 (nuovo
testo) cod. proc. civ., nel prevedere il ricorso
amministrativo quale condizione di procedibilita' della
domanda giudiziale in materia di previdenza e assistenza
obbligatorie, usa la dizione testuale "procedimenti prescritti
dalle leggi speciali per la composizione in sede
amministrativa". Analogamente si esprimeva l'art. 460 prima
della "novella" 11 agosto 1973, n. 533, con la sola differenza
che prevedeva il ricorso amministrativo quale condizione di
proponibilita' della domanda, anziche' quale condizione di
procedibilita'. Una norma cosi' formulata non puo' servire di
base all'obbligatorieta' del ricorso amministrativo, giacche'
rimanda alle leggi speciali: dovrebbero essere queste ultime a
prevedere con espressa dizione l'obbligo del ricorso
amministrativo precontenzioso. Ma, in materia di prestazioni
in genere erogate dall'INAM (senza eccezione per le indennita'
di malattia e di maternita', le sole che qui interessano), si
formo' un indirizzo giurisprudenziale costante e consolidato
nel senso che ne' nella legge istitutiva 11 gennaio 1943, n.
138, ne' in quelle successive concernenti l'INAM era dato
rintracciare alcuna norma che prevedesse il ricorso
amministrativo come obbligatorio, fermo restando che
l'assicurato era libero di proporlo prima di adire le vie
legali, come era libero, dopo averlo proposto, di non
attenderne l'esito (194).
Questo regime e' rimasto invariato pur dopo il
trasferimento all'INPS della competenza passiva in materia di
indennita' di malattia e di maternita' conseguente alla
riforma sanitaria.
2. Legittimazione passiva. - Quando le indennita' di malattia
e di maternita', anziche' essere corrisposte direttamente
dall'Istituto, vanno anticipate al dipendente dal datore di
lavoro, puo' essere dubbio quale sia il soggetto passivamente
legittimato alla domanda giudiziale: se l'INPS o il datore di
lavoro. La risposta al quesito dipende dalla posizione
giuridica che si attribuisca al datore di lavoro: se quella di
"adiectus solutionis causa", cioe' di un semplice incaricato
del pagamento, o quella di obbligato diretto alla
corresponsione delle indennita' nei confronti del lavoratore.
"Prima facie", non sembrerebbe che la situazione sia diversa
- 67 -
da quella che si presenta in materia di assegni familiari;
sennonche', non si puo' certo eslcudere, allo stato, che sia
sostenibile la tesi dell'obbligo diretto a carico del datore
di lavoro, con conseguente sua legittimazione passiva
all'azione di condanna da parte del dipendente assicurato,
secondo l'orientamento che si va profilando nella
giurisprudenza di merito (195).
Naturalmente, non si puo' contestare la legittimazione
passiva dell'Istituto, quanto meno, ad un'azione di
accertamento da parte dell'assistito (196), come anche la sua
legittimazione ad impugnare la sentenza di condanna
pronunciata a carico del datore di lavoro (197).
3. Giudice competente. - La norma in base alla quale si deve
stabilire qual e' il giudice competente sulla domanda di
indennita' di malattia o di maternita' proposta contro l'INPS,
e' quella che riguarda le prestazioni previdenziali in genere,
cioe', il 1 comma dell'art. 444 (novellato) cod. proc. civ.
Benche' essa sia formulata con estrema chiarezza, non di rado
si verifica che il ricorso sia proposto dinanzi a un Pretore
incompetente per territorio. E' bene, percio', tener presente
che deve essere adito il Pretore della localita' dove si trova
il Tribunale nel cui cincondario risiede il richiedente la
prestazione: Pretore che, se il territorio della Provincia
comprende piu' di un circondario giudiziario, puo' anche non
essere quello della localita' dove si trova la Sede
Provinciale dell'Istituto. Citiamo qualche esempio: la
Provincia di Latina comprende il solo circondario giudiziario
del capoluogo; quindi, un lavoratore di questa Provincia che
voglia agire in giudizio deve adire necessariamente il Pretore
di Latina. Invece, la Provincia di Roma ha tre circondari, che
sono quello del capoluogo e quelli di Velletri e di
Civitavecchia; quindi, un lavoratore che risiede nel Comune di
Albano Laziale, rientrante nella Provincia di Roma ma nel
circondario di Velletri, deve adire il Pretore di quest'ultima
localita', non quello del capoluogo della Provincia. Cio'
stante, e' bene che, quando il Comune di residenza dell'attore
non risulta dal ricorso, il difensore dell'Istituto accerti
qual e', in modo che, ove risulti adito un Pretore
incompetente e la domanda attorea risulti fondata, si possa
provvedere alla corresponsione dell'indennita' prima che la
domanda venga riproposta dinanzi al Pretore competente: in tal
caso, quello adito, se riconosce fondata l'eccezione di
incompetenza, non potra' condannare l'Istituto alle spese; ne'
potra' farlo il Pretore competente, perche' il lavoratore e'
stato soddisfatto prima di proporre la domanda dinanzi a lui.
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E' da ritenere che il 1 comma dell'art. 444 cod. proc.
civ. trovi applicazione anche nei casi in cui l'indennita'
debba essere anticipata per legge dal datore di lavoro e il
lavoratore agisca contro di esso, nel presupposto che sia
l'obbligato diretto. Basti riflettere che l'art. cit.,
attraverso il richiamo del 442, si riferisce ad una nozione
oggettiva di controversia previdenziale, che prescinde dal
soggetto passivo nei cui confronti viene promossa; ed appare
incontestabile che, oggettivamente, la domanda giudiziale di
indennita' di malattia o di maternita' e' sempre la stessa,
sia che venga esperita contro l'INPS, sia contro il datore di
lavoro.
L'art. 444, 1 comma, cod. proc. civ. appare applicabile
anche quando sia l'INPS ad agire per il recupero di somme
indebitamente corrisposte al lavoratore (o alla lavoratrice)
quale indennita' giornaliera di malattia o di maternita'. Non
si tratta certamente di una comune azione di "repetitio
indebiti", che sarebbe soggetta alle norme generali in tema di
competenza per valore e per territorio, perche', data
l'indisponibilita' del diritto alle prestazioni previdenziali,
il giudice adito dall'INPS per ottenere il recupero deve
sempre accertare, anche in difetto di contestazioni da parte
del lavoratore, se le somme a lui corrisposte quale indennita'
giornaliera, effettivamente, non gli spettino: quindi,
dovendosi procedere ad interpretazione e applicazione di norme
riguardanti le assicurazioni sociali, si ricade in quella
nozione oggettiva di controversia previdenziale a cui si e'
accennato (198). Eppure, non manca qualche decisione nel senso
dell'applicabilita' delle norme comuni sulla competenza per
valore (199).
Qualche dubbio, invece, puo' sorgere sull'impugnazione da
proporre contro la sentenza di 1 grado (se appello o
direttamente ricorso alla Corte di Cassazione in applicazione
dell'art. 440, novellato, cod. proc. civ.), ove la causa sia
stata promossa contro l'Istituto per la sola questione
dell'"an debeatur", senza precisare del "quantum" in alcun
atto processuale, nemmeno nella sentenza: il dubbio puo'
derivare dal fatto che si potrebbe pensare a un valore della
causa indeterminabile. Ma c'e' ormai un indirizzo
giurisprudenziale costante e consolidato, secondo cui il
valore e' indeterminabile solo se, per la natura della
questione controversa, esso non si puo' assolutamente
esprimere in una data somma di denaro (es., nel caso
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dell'azione di disconoscimento della paternita' o in quello
del procedimento di interdizione); se, invece, il valore non
e' stato indicato in una somma di denaro ben precisa sol
perche' era in contestazione unicamente l'"an debeatur", ma e'
possibile procedere in qualsiasi momento a una determinazione
ben precisa, il valore e' quello che si ottiene con gli
opportuni conteggi (200). Quindi, in applicazione dell'art.
440 cit. la sentenza di primo grado sara' impugnata mediante
appello o mediante ricorso per cassazione, a seconda che il
valore ottenuto con i conteggi sia di almeno L. 50.001 oppure
non superi lire 50.000. Anche a questi fini, il calcolo del
valore sara' eseguito, in applicazione dell'art. 10 cod. proc.
civ., sulla base della domanda proposta, cumulando con la
somma capitale gli interessi gia' maturati e ogni altro
accessorio decorrente da tempo anteriore alla domanda
giudiziale, coma la rivalutazione monetaria, sempreche' gli
accessori siano stati espressamente richiesti e ancorche' non
spettino: si terra' conto solo dell'effettiva portata
oggettiva della domanda proposta, prescindendo da ogni
valutazione attinente al merito (201).
4. Questioni varie. - Fuori di quelle fin qui esaminate, le
altre questioni di procedura che si presentano non assumono un
aspetto particolare in materia di indennita' di malattia e di
maternita', ma, quando non si riferiscono al processo civile
in generale, attengono o alle controversie di lavoro e
previdenziali "lato sensu" o, tutt'al piu', alla domanda di
prestazioni assicurative in genere. Cosi', la nullita' di
notifica dell'atto introduttivo del giudizio (art. 164, 1
comma, cod. proc. civ.), in caso di assegnazione di un termine
a comparire minore di quello stabilito dalla legge (cioe' di
30 giorni ex art. 415, 5 comma, in relazione al 442, 1
comma); l'interesse ad agire concreto e attuale quale
condizione dell'azione (art. 100); l'inapplicabilita' della
sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (art.
3 L. 7 ottobre 1969, n. 742); l'inclusione delle spese della
consulenza tecnica fra le spese di causa che possono essere
poste a carico del lavoratore soccombente nella sola ipotesi
di domanda giudiziale manifestamente infondata e temeraria
(art. 152 disp. attuaz. cod. proc. civ.); e cosi' via.
Non appare superfluo soffermarsi su una di tali questioni
che, nella materia di cui ci si sta occupando, ricorre con una
certa frequenza: quella della riunione di procedimenti per
motivi di connessione. Dato che molto spesso i lavoratori, per
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agire in giudizio, si rivolgono ad enti di patronato, si
verifica che vengano promosse dinanzi allo stesso giudice,
tante volte per ministero del medesimo legale, piu' cause
identiche o connesse anche soltanto per l'identita' delle
questioni dalla cui risoluzione dipende, in tutto o in parte,
la loro decisione. In tali casi, in forza dell'art. 151 disp.
attuaz. cod. proc. civ., il giudice e' tenuto - e non ne ha
una semplice facolta' - a disporre la riunione delle varie
cause, salvo "che essa renda troppo gravoso o comunque ritardi
eccessivamente il processo", e, se eventualmente al giudice
sfugga questo adempimento, sara' bene che il difensore
dell'Istituto ne richiami l'attenzione su di esso ai fini di
economia. Infatti, per il cpv. dell'art. 151 cit. "le
competenze e gli onorari saranno ridotti in considerazione
dell'unitaria trattazione delle controversie riunite". C'e'
poi una norma specifica, che e' data dall'art. 5 del decreto
del Ministro di Grazia e Giustizia 26 settembre 1979, che ha
approvato la tariffa forense in vigore, la quale norma ripete
con le stesse parole quelle dei D.M. relativi alle tariffe
precedenti, fino al D.M. 2 aprile 1965. Il detto art. , al 4
comma, stabilisce che, "nei casi di assitenza e difesa di piu'
parti aventi la stessa posizione processuale, la parcella
unica potra' essere aumentata, per ogni parte fino ad un
massimo di sei, del 20 per cento": in altri termini, si
redigera' una parcella piena relativa ad una sola delle varie
cause e, per ciascuna delle altre cause fino ad un massimo di
sei, si aumentera' della percentuale indicata (202). E' stato
stabilito che la norma non obbliga il giudice a disporre
l'aumento, ma prevede una semplice facolta' da parte sua
(203). E' stato anche precisato che i criteri enunciati dalla
norma in esame valgono nei confronti sia del cliente, sia
dell'avversario soccombente (204); e che la norma medesima si
riferisce, oltreche' all'ipotesi dell'unicita' processuale
originaria, anche a quella di piu' cause iniziate
separatamente e poi riunite (205).
Puo' avvenire che, pur nell'identita' della posizione
processuale dei vari clienti, l'opera dell'unico difensore
comporti l'esame di singole situazioni particolari in fatto e
in diritto rispetto all'oggetto della causa. Per tale
fattispecie, il 5 comma dell'art. 5 cit. da' diritto al
difensore "al compenso secondo tariffa, ridotto del 30 per
cento".
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Queste norme valgono, oltreche' per gli onorari di
avvocato, anche per le competenze di procuratore, tranne che
questi abbia svolto a favore dei vari patrocinati attivita'
distinte (autentiche di firme, formazioni di fascicoli,
depositi di atti ecc.) (206).
Ove occorrano chiarimenti e precisazioni, le SS.LL.
potranno rivolgersi al competente Settore IMM del Ruolo
Professionale - Ramo Legale.
IL DIRETTORE GENERALE
FASSARI
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(1): V. "Atti Ufficiali" 1979, pag. 2452
(2): V. "Atti Ufficiali" 1980, pag. 117
N.B.: Dalla nota n. 3 alla nota n. 206, consultare materiale
cartaceo.
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